Facci: la storia dell'inciucio Dc-Pci per difendere le toghe

Andrea Tempestini

C’è da capire perché si invoca una legge che in teoria esiste già, capire, cioè, perché 21 milioni di italiani votarono per la responsabilità civile dei giudici (referendum del 1987, sull’onda del caso Tortora) ma ancora si parla di introdurre una legge che pure fu varata. La spiegazione mignon è questa: il Parlamento la approvò il 13 aprile 1988 (n.117) ma poi l’asse Dc-Pci-magistrati la svuotò progressivamente, posto che era già vuota di suo. Ma forse si può dare una spiegazione più decente.    Il 5 novembre 1987 il ministro della Giustizia, il socialista Giuliano Vassalli, scrisse una lettera privata a Craxi. Non scriveva al suo presidente del Consiglio (Craxi si era dimesso da tempo) ma al suo segretario di partito. La sua proposta - sulla responsabilità civile dei giudici - pareva buona e soprattutto fedele agli intenti del referendum che si tenne quattro giorni dopo: i magistrati avrebbero finalmente pagato per i propri errori come è sempre stato per tutte le professioni e come già accadeva per tutte le magistrature del mondo. Un frammento: «Caro Bettino, unisco lo schema di disegno di legge che intendo diramare all’indomani del referendum se il risultato sarà “sì”. Lo schema è stato redatto con scrupolo, cercando di tener conto dei ventidue progetti già esistenti… Esso ha una notevole autonomia rispetto alle proposte comunista, democristiana e repubblicana... Hanno collaborato con me insigni studiosi del processo civile. Gradirei una tua rapida presa in esame e un tuo assenso». Poi le singole voci, qui indegnamente riassunte: 1) responsabilità civile per tutti i giudici, ciò per un indeclinabile principio costituzionale di parità; 2) responsabilità sia per dolo che per colpa grave e non per «provvedimenti abnormi»; 3) in caso di condanna, azione obbligatoria di rivalsa dello Stato  verso il magistrato senza spazio per discrezionalità ministeriali; 4) limitazione della rivalsa a un terzo dello stipendio. L’inutile vittoria referendaria (80,2 per cento di sì) sfociò in una legge via via svuotata, come detto. In caso di colpa grave o di palese negligenza, in teoria, i magistrati dovevano pagare per i propri errori: in pratica non è mai accaduto, a meno di qualche sconosciuta eccezione in questi ultimi anni. In sostanza la legge non c’è. Nell’88-89, quando entrò in vigore, i ricorsi per l’azione di responsabilità verso i giudici furono 80. L’anno dopo, 30. Nel 1993, 16. Nel 1994, solo 7. E via a morire. Il perché è chiaro: zero condanne e zero avvocati disposti a credere che un magistrato possa intentare un procedimento serio contro un altro magistrato. Lo stesso Csm, se frugate tra le sue carte, ammette che la «previgente disciplina» fosse «fortemente limitativa dei casi di responsabilità civile del giudice»; ma siccome la disciplina è praticamente rimasta quella - negli effetti pratici, almeno - di fatto essa è ancora «fortemente limitativa». Cioè: non paga nessuno. La legge puntualizza le definizioni di «colpa grave» e «diniego di giustizia» (art. 3) ma poi cominciano i paletti. Alias: sono escluse da ogni «responsabilità» un’erronea interpretazione di legge e una fallace valutazione dei fatti e delle prove: queste sono cose che i magistrati si regolano tra loro all’interno del processo e a mezzo delle varie impugnazioni; l’attività giurisdizionale del magistrato resta «insindacabile» e, in caso di abnormi o macroscopiche violazioni di legge, o ancora di distorsioni della funzione giudiziaria, può intervenire soltanto il Csm con provvedimenti disciplinari; di ciò, nota bene, i giornalisti possono scrivere solo se non nominano i singoli magistrati. In caso di risarcimento, cioè mai, il risarcimento dei danni pesa sullo Stato, non sul magistrato. La causa va fatta perciò allo Stato (che saremmo noi) e nel caso paga lo Stato che può rivalersi sulla toga. Mai successo, ovviamente. Ancora: la causa si può fare solo dopo aver esperito tutti i ricorsi e le impugnazioni del mondo, cioè dopo un sacco di tempo. Infine: una successiva modifica (2 dicembre 1998, n. 420) ha stabilito che qualsiasi causa deve aver luogo lontano da dove lavora il giudice denunciato: questo per non sputtanarlo tra i colleghi. Più che paletti, è una palizzata insormontabile. Ma ripetiamolo ancora: stiamo parlando di fantasmi, di cause che non esistono. Inevitabile un accenno agli errori compiuti dalla magistratura. Quanti sono? È impossibile dirlo con precisione. Occorre distinguere tra errori giudiziari propriamente detti (riconosciuti cioè da una procedura di revisione del processo, roba molto difficile da ottenere) e casi di ingiusta detenzione cautelare, ma in teoria andrebbero conteggiati anche i casi di prescrizione e quelli ovviamente di chi è stato prosciolto: e in Italia viene mediamente scagionato quasi un imputato su due. Per l’ingiusta detenzione, ogni anno, lo Stato paga cifre invereconde: lo Stato, non la magistratura. Mentre la commissione disciplinare del Csm - e si provi a negarlo - ogni volta punisce i magistrati con sanzioni ridicole (ammonizioni, censure, spostamenti, paradossalmente promozioni) e non esistono sanzioni sugli stipendi o sulla carriera. In pratica non esiste niente. di Filippo Facci