Pansa: Casta ladra e arrogante Suicidio in diretta di Rutelli&C

Giulio Bucchi

È davvero un’ingenua al cubo, la Rosy Bindi. Oppure, al contrario, è corazzata da un’arroganza senza misura. Intervistata ieri da  Repubblica  sull’affare del tesoriere della Margherita, Luigi Lusi, si è sentita rivolgere da Giovanna Casadio un’ultima domanda: «Nel momento dell’antipolitica, quanto nuoce al Partito democratico questa vicenda?». La sceriffa di Sinalunga ha risposto scrollando le spalle con sufficienza: «Siamo di fronte al comportamento sbagliato di una persona. Sul banco degli imputati non può essere chiamata la politica». Confesso di aver ammirato la Rosy. Mi era sempre apparsa la più manettara fra i democratici. Sempre alla ricerca ossessiva di qualche colpevole da incriminare, soprattutto quando il fellone stava nascosto nel centrodestra. Se aveva qualche sospetto, la Rosy correva a presentarsi al primo talk show rosso e lì pronunciava la propria requisitoria. Con lo stile della  vergine guerriera incaricata di fustigare il peccato e il peccatore. Ma adesso comincio a pensare che fosse tutta una finzione. La Rosy era sì una sceriffa, però a senso unico. Pronta mostrare la stella e la pistola soltanto agli avversari politici. Quando è arrivato il momento di esprimersi sul conto di un vorace margheritone cresciuto nel suo vecchio partito, che ha fatto la ragazza? Si è comportata come il leader politico che aveva più odiato: Bettino Craxi. Il giorno che la procura della Repubblica di Milano, nella persona del pubblico ministero Tonino Di Pietro, agguantò il primo socialista ladro, Mario Chiesa, il patron della Baggina, vi ricordate ciò che proclamò Bettino? Spiegò che si trattava di un mariuolo isolato, un singola mela marcia capitata nel cesto delle mele sane. Era il febbraio 1992. Fu allora che iniziò a soffiare la bufera di Mani pulite e venne alla luce l’enorme verminaio di Tangentopoli. Non immagino che seguiti abbia la storia del tesoriere della Margherita. Ma so per certo che è l’ennesima campana a morto per i partiti italiani. Stiamo scrivendo sino alla nausea che l’antipolitica sta dilagando. Però lo facciamo dall’interno delle redazioni dei giornali. Senza mettere la testa fuori dal buco per dare un’occhiata a quanto accade all’esterno dei nostri bunker di carta stampata. A me capita di farlo, perché non ho più l’obbligo di stare in redazione. E quel che vedo e ascolto, nel piccolo centro dove vivo, comincia a incutermi un terrore profondo. L’uomo della strada, l’italiano medio e senza potere, odia i politici. Li considera fannulloni, ladri, parassiti della società alla quale succhiano il sangue. Non li sopporta più e sarebbe pronto a pagare chiunque sia in grado di sopprimerli. Considera tutti i partiti dei clan mafiosi. Giudica il Parlamento un ente inutile che andrebbe cancellato. Qualcuno comincia a domandarsi se non esista qualche forza esterna in grado di disfarsene.  Nella Prima Repubblica si parlava spesso di un colpo di Stato. Soprattutto le sinistre lo temevano, pensando che il rischio venisse dal versante di destra della Democrazia cristiana o da qualche settore dell’Arma dei carabinieri. In realtà era un timore infondato perché non accadde mai nulla di serio. Allorché entrarono in scena le Brigate rosse, una quota consistente di italiani sperò che Curcio e compagni prendessero di mira la partitocrazia nostrana. Non è vero che, quando le Br rapirono e uccisero Aldo Moro, l’Italia intera pianse sulla sorte del leader democristiano. Una parte del Paese, insondata dai media, pensò che Moro avesse ricevuto quel che meritava. E si augurò che la stessa fine venisse riservata a un big della sinistra. Per esempio, a Enrico Berlinguer, considerato il complice di Moro nella politica del compromesso storico. Oggi le Br sono morte e sepolte, per fortuna. E in Italia non s’intravede nessuno in grado di mettere fuori gioco i partiti. A parte un governo europeo che molti cominciano a considerare un’opportunità per legare le mani alla Casta nostrana. In compenso sono le parrocchie politiche a lavorare contro se stesse. Stiamo assistendo a un fenomeno non ancora studiato dai politologi. È quello dei partiti che, giorno dopo giorno, allestiscono da soli il golpe che li distruggerà. Siamo di fronte a una congiura invisibile e suicida. Come testimoniano le storie del tesoriere ex  Margherita e del senatore del Pdl Riccardo Conti, immobiliarista professionale, che in un giorno solo ha saputo guadagnare 18 milioni di euro. «Questi partiti sono pazzi!» sentivo esclamare al bar del mio paese. «Fanno l’impossibile perché la gente si auguri la loro morte».  Tutti i membri della Casta devono stare molto attenti. Sono già stati messi fuori gioco dal governo dei tecnici. Una delle ragioni del successo di Mario Monti e dei suoi professori sta proprio nel lavoro di supplenza che svolgono nei confronti dei partiti in cancrena. Quando sento strillare alla democrazia sospesa, come fa di continuo Di Pietro, mi viene da ridere. Consiglierei al capo dell’Idv di frequentare qualche bar in incognito, come farebbe qualunque commissario Basettoni. Potrà aggiornare la propria strategia politica. Uno che forse dovrà frequentare i luoghi pubblici in abito simulato sarà Francesco Rutelli, ex capo della Margherita sino al 2007, ossia al momento della fusione con i Ds nel Partito democratico. Lo consideravo da tempo un disperso in guerra, a cavallo di un partituccio, l’Api, praticamente sconosciuto. Ma adesso le maledette carte del tesoriere margheritone lo stanno mettendo nei guai. Ho l’impressione che “Franciasco”, ovvero Cicciobello, si stia difendendo male. Ha scelto una linea senza futuro, quella di sostenere di non aver mai saputo niente dei traffici dell’amico. E temo che si stia cacciando nei pasticci da solo. Lo temo in base all’esperienza professionale, l’unica arma di un cronista anziano. Conosco bene quanto sia fragile questa strategia per averla vista applicare da un altro disperso, Achille Occhetto. Nel luglio 1992 incontrò i quadri milanesi del partito, in pieno choc per aver saputo che Mani Pulite aveva scovato le tangentone incassate dal partito ambrosiano. Al termine di due assemblee molto incavolate, tenute in via Volturno, la mitica sede della federazione comunista e poi diessina,  Baffo di ferro si difese, borbottando angosciato: «Io non sapevo. I fatti emersi io non li conoscevo». Due mesi dopo, era il settembre 1992, venni invitato alla Festa nazionale dell’Unità che quell’anno si svolgeva a Reggio Emilia. Il dibattito era uno dei tanti,  sulla crisi della politica. Lo moderava un cauteloso Gad Lerner, il più annoiato nel gruppo sul palco. Pensai di dare una scossa all’ambiente, osservando: «Occhetto sostiene di non aver mai saputo nulla delle tangenti. Però sbaglia, mostrando di essere un ingenuo o un bugiardo. Ma in entrambi i casi non può continuare a guidare un grande partito d’opposizione come l’ex Pci». Pensavo che il pubblico mi avrebbe fischiato. Invece i mille compagni presenti sotto il tendone si alzarono in piedi applaudendo entusiasti. Molti gridavano: «Bravo! Ci voleva qualcuno che lo dicesse!». Per questo mi sento di consigliare a Cicciobello: «Attento a come ti muovi». E soprattutto non partecipare ad assemblee di ex margheritucci. di Giampaolo Pansa