La Casta dei "burosauri" che si oppone alle riforme
Certo non era dal pacchetto liberalizzazioni che doveva arrivare la sforbiciata. Le occasioni (perse) sono state altre. Tuttavia, una cosa ormai è certa: la casta dei burocrati non si tocca. Non hanno avuto il coraggio di smuovere le acque i governi politici e non intendono farlo nemmeno i professori di stanza a palazzo Chigi dallo scorso 16 novembre. Stiamo parlando di poche (ma potenti) posizioni apicali dei ministeri. A fare un giro rapido se ne contano circa 60: direttori generali, capi di gabinetto, numeri uno di dipartimenti. Posti di lavoro ambitissimi e assai ben pagati, anche oltre 500mila euro l’anno grazie alle deroghe ai tetti alle retribuzioni, anche questi accuratamente conservati dall’Esecutivo guidato da Mario Monti. E in particolare il premier, come quasi tutti i suoi colleghi di Governo, non ha spostato nemmeno una pedina al ministero dell’Economia (di cui Monti ha l’interim), snodo nevralgico del Paese. Del resto è proprio lì, ai piani alti di via Venti Settembre, che si gestisce la macchina dello Stato. Si dice che Monti abbia preferito lasciare intatto l’assetto messo a punto dal suo predecessore, vale a dire Giulio Tremonti. Forse perché la prospettiva non era così lunga da avviare complicate riorganizzazioni. Sta di fatto che le tre-quattro poltrone di peso sono occupate dalle stesse persone piazzate dal professore di Sondrio e che comunque ruotano attorno a via Venti Settembre da quasi venti anni. E anche a questo gruppetto di intoccabili andrebbe ricondotta l’inefficienza della Pubblica amministrazione che zavorra le imprese e l’economia per circa 60 miliardi di euro. Inefficienza, ovviamente, legata principalmente all’apparato legislativo e regolamentare che dalla prossima settimana potrebbe subire un ridimensionamento se palazzo Chigi riuscirà a condurre in porto il decreto per le «semplificazioni». L’oligarchia, c’è da scommetterlo, si salverà anche al prossimo consiglio dei ministri. I n cima alla lista dei superburocrati “intoccabili” c’è Attilio Befera. Direttore dell’agenzia delle Entrate e contemporaneamente presidente di Equitalia, Befera (romano, classe 1946), in pratica, ha in mano le chiavi del fisco italiano: gestisce la struttura degli accertamenti e dei controlli sui tributi e poi guida la società che si occupa della riscossione delle tasse. Un doppio incarico che gli garantisce, complessivamente, uno stipendio annuo da 456.733 euro. Negli scorsi anni si è parlato più volte di una sua sostituzione. Gli occhi sono puntati, in particolare, sul doppio incarico e su un presunto conflitto di interessi. Da quasi 17 anni lavora nell’amministrazione finanziaria. L’altro caso rilevante che non sfugge agli addetti ai lavori è quello di Mario Canzio. Nato a Salerno, quest’anno compie 65 anni e a via Venti Settembre “vive” da una quarantina d’anni. È il classico tecnico bipartisan , nel senso che ha lavorato con governi di tutti i colori scalando i gradini della carriera ministeriale. A capo della ragioneria generale dello Stato è arrivato nel 2005 (per rimpiazzare Grilli): in pratica è il custode del bilancio dell’Italia. Mentre la regia tributaria è affidata a Fabrizia Lapecorella. Quello del numero uno del Dipartimento delle finanze è uno dei pochi stipendi in linea con i limiti fissati dalla legge: 272mila euro più o meno. Lapecorella coordina le quattro agenzie fiscali: Entrate, Territorio, Demanio, Dogane. Vincenzo Fortunato è il capo di gabinetto, un posto chiave. Guida la complicatissima macchina operativa del ministero. Ha occupato quella posizione anche con Antonio Di Pietro al dicastero delle Infrastrutture tra il 2006 e il 2008. Poi, dopo le elezioni, Tremonti lo ha chiamato all’Economia. Dove, peraltro, era già stato con lo stesso incarico nella legislatura 2001-2006. In pratica ha stabilito una specie di record nella storia della burocrazia italiana: dieci anni con lo stesso ruolo, ballando tra due ministeri. Nel 2005 ha dichiarato al fisco, stando ai dati delle Entrate, la bellezza di 788.855 euro. Discorso a parte quello di Vittorio Grilli. Promosso a viceministro dell’Economia dal Monti, Grilli (nato a a Milano nel 1957) ha congelato la sua posizione di direttore generale del Tesoro, incarico che copriva fina dal 2005. Seppur con un paio di parentesi esterne, al ministero lavora da quasi diciotto anni. Era stato in corsa per la carica di governatore della Banca d’Italia, ma una serie di veti incrociati e la resistenza interna di palazzo Koch lo hanno messo fuori gioco. Stava per lasciare il Tesoro e pur di non perderlo Monti lo gli ha dato i galloni di viceministro. Il che, va detto, comporta un taglio drastico del suo stipendio da 518mila euro a circa 150mila. Una specie di mosca bianca. di Francesco De Dominicis