Mughini Facebook e social network, falsi amici Solo parole inutili camuffate da sentimento
Ricevo frequentemente inviti, talvolta firmati con un nome e cognome, a entrare a far parte della comunità di Facebook. Quando si mantengono bassi, dicono che ci troverò 150-200 “amici” che non aspettano altro che di comunicare con me a colpi di clic sul computer, gente che mi vuole dire la sua e che si aspetta che io racconti la mia. E magari scambiarsi delle foto, io che in foto risulto ancora più brutto e stagionato di quanto sono. 150 o 200 amici, nientemeno. Io 150 amici non li ho avuti nemmeno a mettere assieme quelli che ho avuto in tutta la mia vita; nemmeno a sommare quelli del tempo dei vent’anni, e nessuno di loro mi è rimasto amico, e quelli dell’età matura, e anche lì è stata una carneficina. L’amico per eccellenza, l’amico di tutta una vita, l’amico come non ne avrò mai più, Elio, è morto di tumore una notte di 16 anni fa. Nella mia vita di oggi posso usare il termine “amico” per un numero di persone che non arriva a dieci, e con ognuno di loro è una grave responsabilità quella di gestire e mantenere l’amicizia. Altro che cinguettare al computer a furia di messaggini più o meno minchioni. Per fare un esempio concreto, passerò l’ultima sera dell’anno in casa di Marina e Carlo Ripa di Meana, che miei grandi amici lo sono di certo: e purché io aggiunga subito quanto sia impegnativo essere amico di Marina da come lei straripa di vezzi e capricci e vanità. Beninteso, io penso che ne valga assolutamente la pena fronteggiare i suoi capricci, che averla amica valga a iosa la fatica che comporta. Ma è questo che voglio dirvi e ripetervi: che sempre un’amicizia è una fatica e una responsabilità e un’attenzione estrema ai dettagli. Perché in un’amicizia non c’è dettaglio che non sia pesante, stavo per dire decisivo. Nei dettagli c’è Dio. E se no, di che stiamo parlando cari amici di Facebook che non conosco? E a proposito di amici, nel 2011 me ne sono persi tre o quattro. Perché basta un dettaglio sbagliato, e io non lo perdono.E difatti io subito mi scuso se all’sms di un amico replico con ritardo, se al telefono lo richiamo con ritardo; devo faticare e concentrarmi per rispondere tempestivamente ai messaggi che quotidianamente mi mandano Ruggero e Tella, che di certo sono miei amici. Mi vergogno come un matto se un mio amico, o anche una persona che stimo, pubblica un libro e io non trovo il modo di fargli un cenno e un augurio in proposito. Se quell’amico per mestiere scrive sui giornali, sono felicissimo quando faccio partire un sms di congratulazioni dopo aver letto un suo articolo. So che fa piacere, come fa piacere a me quando ogni tanto ne ricevo uno. L’amicizia è una sinfonia, dove devi calibrare i vari strumenti e basta suonarne male uno per corrompere tutta la musica. Alcuni mesi fa ho invitato a cena un giovane giornalista che mi stava simpatico e che stimo. E’ venuto a casa mia, ha mangiato, ha bevuto, ha riso. Mai più avuto un cenno o una parola da lui. Bene. Per me è chiuso e sprangato, altro che ritrovarlo su Facebook. Vi sto annoiando? Spero di no. Non posso crederci che per voi l’amicizia sia qualcosa di più facile e leggero e che non comporta responsabilità, lo stare insieme comunque, il cinguettare di questo e di quello, mandare gli auguri con il telefonino che li manda contemporaneamente a tutti quelli che stanno nell’indirizzario, fare la telefonata la più inutile a chiedere “come stai?”, vedersi a cena venti o trenta persone che non hanno il modo neppure di dirsi ai e bai. Mi direte che Facebook per sua natura ha niente a che vedere con tutto questo, è solo un luogo dove “socializzare” e scambiare opinioni. Appunto, a me non passa per la testa di “scambiare opinioni”. Innanzi tutto perché non ho nulla da dire e poi perché il punto non è scambiare opinioni, ma ragionare con acutezza e sensibilità. E non è facile, non è facile per niente, non è facile con tutti, non è facile tutti i giorni. E a parte il fatto che a me piace ascoltare, non emettere sentenze. Se qualcuno di voi si ricorda di avermi ascoltato parlare in tv di questo o di quest’altro, è perché mi stavano pagando, perché quello è il lavoro di cui campo. Altrimenti me ne sto in silenzio il più che posso. Le parole sono sacre, meno se ne usano a vanvera e meglio è. In ogni circostanza della vita, pubblica e privata. E anche se purtroppo il corso inesorabile delle cose va altrove. Dappertutto uno schiamazzo di dichiarazioni, di mail, di interviste televisive e radiofoniche dove le stupidaggini crescono a far montagna. E non c’è più in Italia un cretino che non abbia un blog o un simil-blog dal quale mitraglia il mondo. di Giampiero Mughini