Di Pietro e la rivolta dei valori: scatta il processo al capo Idv
Come nella barzelletta della «lettera anonima a quelli del piano di sopra», solo più divertente. Pancho Pardi, senatore e spirito critico dell’Italia dei valori, scrive una lettera per invitare i compagni di partito a ribellarsi nientemeno che a Tonino Di Pietro in persona e al momento di pigiare il tasto “invia” fa il patatrac. Galeotto fu l’indirizzario: invece di mandare la missiva carbonara ai soli membri dei gruppi Idv di Camera e Senato, il professore fiorentino la recapita a tutti e mille i parlamentari in carica della XVI legislatura. Un clic, e il danno è fatto: «Messaggio inviato con successo». Questione di minuti, e la lettera di Pardi travalica gli angusti confini del Palazzo. E, un forward dopo l’altro, arriva anche a questo giornale. «Mi aspettavo che l’ultima riunione di partito», esordisce Pardi, «affrontasse i problemi incombenti della situazione politica complessiva. Così non è stato». L’animatore dei girotondi viene subito al sodo: «Intendo portare qualche argomento a sostegno di un nostro voto a favore dell’eventuale governo Monti, accompagnato alla scelta di non entrarvi». Al netto del tatticismo, il deviazionismo dalla linea di Di Pietro c’è tutto: Tonino è per il no chiaro e tondo (configurandosi così lo schema dell’Idv all’opposizione che urla alla macelleria sociale e ruba voti al Pd costretto suo malgrado ad appoggiare il governissimo). Linea che, secondo Pardi, semplicemente non ha senso: «La richiesta di voto anticipato ha un forte valore simbolico ma non è praticabile, e la sua adozione non dipende da noi». Senza contare che «per di più soffriamo l’identità con la richiesta della Lega» e «ciò ci condanna al ruolo speculare degli esclusi sui due lati opposti della scena politica». Anche perché c’è un problema di coerenza: «Noi siamo una componente essenziale dei vincitori», ragiona il senatore, «e affermarlo con orgoglio comporta una coerenza di comportamenti: dobbiamo essere presenti nei luoghi e nei momenti essenziali per portare a definitivo compimento la ricostruzione». Se ne deduce che «il voto contrario, ma anche l’astensione, nella fiducia all’eventuale governo Monti avrebbe il significato di un Aventino sterile e improduttivo. Ci attirerebbe la facile accusa di operare solo per lucrare voti e interessi di bottega (sono subissato da mail in questo senso inviate da chi ci ha votato)». E a fare le anime belle si rischia la pelle: «Fuori dalla maggioranza», avverte Pardi, «siamo i primi candidati a essere fatti fuori da una nuova legge elettorale impostata, se non sul principio della vocazione maggioritaria, almeno da una precisa conventio ad escludendum (sic)». Postilla acida per Giorgio Napolitano, reo di lesa maestà per non avere coinvolto l’Idv nel giro di consultazioni della scorsa settimana: «Gli sgarbi ricevuti dal Quirinale non possono essere ricambiati col favore di farci fuori da soli, ma semmai con la gentilezza più perfida». E in che consiste la linea Pardi? Intanto nel non impegnarsi al no alla fiducia a tutti i costi. E poi a lasciare aperta ogni porta: «Potrebbe avere senso perfino l’ingresso nel governo, soprattutto se ci fosse la possibilità di presidiare un ministero adatto ad esercitare influenze innovative». Tradotto: se la poltrona è quella giusta, perché lasciarla ad altri? Resta da capire come l’ex pm - tradizionalmente poco amante del confronto interno - prenderà la sortita di Pardi. «No alla fiducia», ripeteva ieri Tonino, «non possiamo stare in un governo che risponde al sistema bancario, al sistema finanziario e addirittura a quello della speculazione che per far quadrare i conti usa i ceti deboli come carne da macello». Sarà un’impressione, ma non dovrebbe prenderla bene. di Marco Gorra