Mussolini scrive alla Petacci Tigretta mia, sono cambiato

Lucia Esposito

Il 19 gennaio 1944, l’esasperazione: «È per me una gioia e un sollievo telefonarti. Ma se i 20 controllori debbono registrare le nostre eterne discussioni - come poco fa è avvenuto - rinuncerò anche al telefono. Ma possibile che non ci sia verso di parlare con calma? Almeno per due - 3 minuti?». Benito Mussolini si è appena sciroppato l’ultimo sfogo di Claretta Petacci. L’ennesima scenata di gelosia. Nell’epistolario fra i due  (in uscita il 15 novembre per Mondadori, di cui Libero continua a presentarvi in anteprima i contenuti), è uno stillicidio. La donna lo vessa in continuazione, gli attribuisce flirt ora con una stenografa ora con una certa Elsa ora con chissà che maliarda.  Mussolini tollera il tollerabile, poi esplode.  Il 17 aprile del 1944 le scrive: «Perché vogliamo continuare a scambiarci  delle lettere agro-dolci, come se fossimo dei diplomatici e della peggiore specie? Io ti ho spiegato perché e come domenica non mi fu possibile di vederti». L’11 maggio del 1944 si spazientisce: «No, cara, il tono minaccioso del tuo biglietto, non è il miglior passaporto per venire da me stasera, al termine di un pomeriggio che è particolarmente pesante. Nella stanza dello Zodiaco ci si poteva permettere il lusso di litigare perché, alla fine, si aveva il tempo di riconciliarsi: qui questo lusso è severamente vietato». Nulla da fare, gli assalti e le furie di Clara continuano. A volte il duce li prende con «simpatia», altre volte si arrabbia. Più spesso ripete che l’idea di frequentare altre donne nemmeno gli passa per la testa: si sente demotivato, stanco. Non sono più quello di un tempo, le confessa. «È caduto, in me, ogni impulso. La mia vita oggi è totalmente casta: nei fatti e anche nei pensieri».  La Petacci non vuole sentire ragioni. Il 18 febbraio 1945 Benito scrive che, per via di una visita della moglie in serata, non potrà vederla. Sentite la risposta: «Non ti vergogni? Non ti vergogni? Un uomo come te ridotto come un miserabile Arcibaldo? (...) E io dovrei ancora morire per te? Sei capace di fare il prepotente e la voce grossa con me che non ti ho mai mancato di rispetto, né reso ridicolo come avresti sempre meritato, per la tua condotta immorale e per il tuo atteggiamento inqualificabile? E vuoi farmi credere che temi tua moglie? E vuoi farmi credere sul serio che tu non hai avuto il coraggio di uscire? Tu che sei passato sul mio cadavere per le tue puttane! (...) Permetti che io ti dica che sei un disgraziato, un autentico disgraziato. Ti disprezzo, ti disprezzo e da questo momento è chiusa nella maniera più definitiva». Ovviamente non è finito un bel nulla. Il duce resterà avvinto a Claretta fino all’ultimo. Anche se la loro relazione gli ha procurato guai, pure con l’opinione pubblica, come spiega nell’introduzione al volume Elena Aga-Rossi.  I rapporti con la famiglia Petacci furono presentati come dal Corriere della Sera in piena infatuazione badogliana, il 25 agosto ’43, come «uno dei tanti casi di pirotecnica ascensione di donnette volgari e mediocri che caratterizzano la storia del passato regime». Aggiunge la storica: «Il 25 luglio stesso venne anzi presentato come una campagna moralizzatrice, in cui alle ruberie dei gerarchi, alla decadenza di Mussolini, che si perde dietro le sottane, si contrappone la dirittura, l’integrità della monarchia. La “questione morale” fu ampiamente utilizzata per spiegare ufficialmente agli italiani le forzate dimissioni del duce ed è in questo clima che avvenne anche l’arresto della stessa Petacci». E intanto Claretta continuava a fare scenate al suo Ben...