Al mercato Casini-Pomicino per accaparrarsi i malpancisti

Lucia Esposito

Lo chiamavano lo “Sportello Pomicino”. Pomicino è Paolo Cirino, all’epoca presidente della Commissione Bilancio della Camera, oggi, per conto di Casini e dei centristi, gran manovratore di Montecitorio con un compito ben preciso: raccattare parlamentari,  privare  della maggioranza il governo Berlusconi, farlo cadere e prendere in mano le redini del Paese per mettere i conti sotto controllo, ridurre il debito pubblico, ridare fiducia ai mercati. A sentir loro, non c’è via di scampo: o il testimone passa nelle mani dell’opposizione, Casini compreso, o sarà la fine. Ma questa è un’altra storia, un altro sogno. A noi interessa lo sportello, interessa capire come mai oggi l’Italia è una sorvegliata speciale, perché si è arrivati a questo punto. Primi anni Ottanta. La Dc è quella dei tempi d’oro. Comandano Andreotti, Fanfani, De Mita, Goria. Anche Forlani, il padrino politico di Pierferdinando Casini oggi signore del rigore. Casini era “lo sfondo”. Ogni sera - raccontano le cronache - le telecamere inquadravano Forlani. Ogni sera Forlani diceva: «Occorre una soluzione equilibrata». Ogni sera le telecamere ruotavano a destra e a sinistra di Forlani. E ogni sera a destra e a sinistra di Forlani c’è Pierferdinando il bello. Ma dobbiamo parlare dello sportello, che non era un vero sportello. Era una porta sempre aperta. Si arrivava, non si bussava neppure e si riscuoteva. Le parole di Cirino  Ricorda il manovratore  che oggi si batte per salvare i conti italiani: «Fino a quando sono arrivato io, la Commissione Bilancio non contava nulla». Poi divenne potentissima, un Bancomat - diremmo oggi - sempre in attività. Il meccanismo era quello del maxiemendamento vol-au-vent, definizione dello stesso manovratore, una specie di guscio vuoto, un involucro. «E noi - spiegò una volta Pomicino - lo riempivamo di provvedimenti e finanziamenti». Ci mettevano dentro ogni cosa. Allo sportello bussavano tutti, comunisti, socialisti, liberali, repubblicani e soprattutto democristiani. Una volta Silvano Labriola, socialista, assieme ad alcuni colleghi presentò un emendamento che assegnava decine di miliardi di lire per le aree cimiteriali. L’emendamento fu inserito nel vol-au-vent e passò all’unanimità. Scrive Marco Damilano, giornalista, riportando le parole di Pomicino: «La fama di iettatore di Labriola era universalmente conosciuta». E l’emendamento riguardava i cimiteri. Meglio non contraddirlo. E le spese lievitavano. Un po’ di numeri. Quando Paolo Cirino Pomicino arrivò alla presidenza della Commissione Bilancio il debito pubblico italiano, in percentuale sul Pil, era del 64,7%. Inaugurato lo “sportello Pomicino”, il debito schizzò al 76,3%  (anno 1984), quindi all’86,5 (1986). Nel 1989 Cirino Pomicino (sempre il doppio cognome, altrimenti si arrabbia) divenne ministro del Bilancio, ascoltato, potente. Il debito ormai veleggiava attorno al 100 per cento del Pil, 107 quando Paolo con quel che segue lasciò il ministero. Anni folli, spese ultrafacili, emendamenti su emendamenti, richieste sempre esaudite. E denaro che se ne andava a fiumi: all’epoca, in media, il debito pubblico cresceva al ritmo del 20% ogni 5 anni. C’era il debito che aumentava, c’erano gli interessi sul debito, c’era un circolo vizioso. E non c’era nessuno che arginasse la perversa spirale. Era una filosofia di governo, un collaudato sistema per conquistare il consenso popolare. Finanza allegra, la chiameranno negli anni a seguire. Euforica. Nel 1994, per effetto delle leggi varate precedentemente, mai cambiate e sempre sbandierate come conquista sociale, una signora, E. C., riuscì ad andare in pensione alla venerandissima età di 39 anni. Il suo assegno pensionistico, scrisse il Corriere della Sera, era quasi pari alla retribuzione. Poco dopo toccò a F. Z., in pensione a 32 anni. Entrambe avevano lavorato come bidelle. Le baby pensioni Nel 2001 fu fatto un calcolo: nonostante le riforme e gli aggiustamenti nel frattempo varati, le pensioni baby erano più di cinquecentomila. Allo Stato costavano 9,5 miliardi di euro ogni anno. Una parte dei pensionati baby aveva lasciato il lavoro fra i 35 e i 39 anni, un’altra parte fra i 45 e i 49. La maggio parte percepiva 1.500 euro al mese. Oggi ci spiegano che dovremo andare in pensione a 65 anni, forse 67. Ci dicono anche che in futuro le pensioni arriveranno al 50 per cento della retribuzione, se andrà bene. E loro, gli eredi della Dc che vogliono far rinascere la Dc, assicurano che risaneranno i conti, che rilanceranno l’immagine dell’Italia, che conquisteranno la fiducia dei mercati. Magari come fece Goria: era ministro del Tesoro, l’iter di approvazione della Finanziaria durò cinque mesi. Le votazioni furono 600, quattro i voti di fiducia, una ventina le sconfitte della maggioranza. Il disavanzo programmato ammontava a 110 mila miliardi di lire. Da finanziare con titoli del debito pubblico. In quegli anni, siamo alla metà dell’Ottanta, ministro della Funzione pubblica era Remo Gaspari. Faceva parte della corrente Alleanza Popolare del Grande Centro doroteo, presieduta da Arnaldo Forlani, il padrino politico di Pierferdinando Casini. Raccontano che quando Gaspari si sedeva al tavolo delle trattative con i sindacati talvolta, come prima cosa, offriva un aumento dei salari. Poi si discuteva del resto. E fu così che nel 1993 il debito pubblico italiano raggiunse il 118 per cento del Pil. Oggi paghi tu, caro lettore. Paghiamo noi. E il Fondo monetario vigila. di Mattias Mainiero