Lega, i 100mila voti per i quali vengono bloccate le pensioni
La previdenza non si tocca. Giù le mani dalle pensioni di anzianità e guai a pensare di alzare l’età pensionabile per gli assegni di vecchiaia. Umberto Bossi lo ripete senza stancarsi, anche con un filo di voce. Si rischia la «crisi di governo». La linea della Lega sul fronte pensionistico è ferma, nonostante l’accordo trovato ieri nella maggioranza. L’intesa, del resto, non può escludere futuri colpi di scena o dietrofront in Parlamento. Il Carroccio non vuole scivolare sulla previdenza: si teme, evidentemente, una caduta elettorale. In ballo ci sono una valanga di voti. Che si possono misurare, a esempio, prendendo in considerazione i nuovi assegni erogati ogni anno dall’Inps. Tra 200mila e 250mila, stando alle statistiche degli ultimi anni. Calcolatrice alla mano, e limitando il conteggio all’orizzonte 2013 (la fine teorica della legislatura), vuol dire che la faccenda interessa da vicino quasi mezzo milione di persone. E oltre la metà (fino al 65% secondo i dati più recenti) risiede proprio al Nord. Gente cui verrebbe spostato in là nel tempo il «momento magico»: quello in cui si smette di lavorare e si campa grazie ai contributi versati nell’arco della vita. Uno scherzetto che potrebbe essera pagato a caro prezzo in cabina elettorale. E la Lega, dopo la débâcle alle amministrative di Milano la scorsa primavera, non intende perdere ulteriori consensi sul territorio. Di qui i «no» secchi: sia all’ipotesi di portare da 65 a 67 anni la pensione di vecchiaia sia agli stravolgimenti per quella di anzianità, incardinata nel meccanismo delle quote con la riforma messa a punto da Roberto Maroni nel 2004 che arriverà a regime nel 2013. La preoccupazione, a via Bellerio a Milano, quartier generale del Carroccio, è alta. Con non poca fatica si cerca di valutare l’impatto di un’eventuale riforma. Le pensioni, come accennato, hanno un peso specifico sul bacino elettorale settentrionale. Del resto, per occupazione e localizzazione delle imprese i flussi di denaro dell’Inps sono diretti per la maggior parte al Nord. Su 4 milioni di assegni erogati mensilmente solo un terzo va al Centro-Sud. Il Popolo delle libertà, invece, è compatto e pronto alla riforma. Sta di fatto che sarebbe stato raggiunto un«punto di equilibrio tra l’adeguamento dell’età pensionabile alla vita media e la necessità di salvaguardare l’entità delle pensioni». Tradotto: le pensioni attuali non vengono colpite, i diritti acquisiti non si toccano, ma, riferiscono, «si sta ragionando su un modello previdenziale spagnolo e tedesco». Nessuna garanzia, però, sul fatto che Bruxelles possa dare il disco verde sulla base di una lettera di intenti. Nel Pdl, infatti, si teme che un testo scritto con un semplice riferimento alle pensioni non basti. Tanto che c’è chi avanza anche il sospetto che la Lega possa avallare le misure proposte dal premier, Silvio Berlusconi, consapevole tuttavia delle difficoltà che il testo portato a Bruxelles potrebbe trovare in sede Ue. Un accordo sui 62 anni di età per l’anzianità per chi ha 35 anni di contributi (e non per chi ne ha 40) comunque i risparmi sarebbero molto contenuti (si tratterebbe di quota 97 anche se con un anno di anticipo rispetto alla normativa attuale e con uno scalino in più sull'età minima) e resteremmo ancora lontani dalla media europea per il collocamento a riposo. Negli altri Paesi infatti si esce a 65 anni uomini e donne e sono previsti in molti casi innalzamenti fino a 67 anni nei prossimi anni. Divisioni e resistenze, quelle fra Lega e Pdl, che hanno un inaspettato rovescio della medaglia. La riforma delle pensioni su cui governo e maggioranza stanno riflettendo, in effetti, sembra ricompattare il fronte sindacale. Nonostante le profonde differenze di vedute sull’esecutivo e sulla strategia di rivendicazione, infatti, Cgil Cisl e Uil sono tornate ad avere una voce sola: no a un nuovo intervento sull’età pensionabile. Un’alzata di scudi unitaria contro la possibilità che palazzo Chigi «rimetta le mani nelle tasche dei lavoratori». E se la Cgil ha parlato di «attacco al lavoro», la Uil si è detta «pronta a scendere in piazza» e la Cisl ha ricordato come siano sparite dal tavolo di confronto sia la patrimoniale sia il taglio dei costi della politica, strade che avrebbero evitato l’opzione previdenza. Ma un no chiaro è arrivato anche dall’Ugl. La sigla più vicina al centro-destra ha chiesto alla politica di contribuire alla salvezza del Paese in maniera proporzionale alle proprie risorse. di Francesco De Dominicis