Pier rottamato dal suo partito
Serve un governo di transizione per fare quelle scelte «ruvide, difficili» che altrimenti nessuno è in grado di fare. Serve un Partito democratico diverso: più riformista, più coraggioso. Serve una coalizione che non sia l’Ulivo in formato Vasto (Pd, Idv, Sel). Perché con quello forse puoi vincere (e non è detto al Senato), ma governare no. Serve un leader diverso da Pier Luigi Bersani? Sì. Anche se il tema, all’assemblea di Movimento democratico, l’area formata da Walter Veltroni, Beppe Fioroni e Paolo Gentiloni, è messo prudentemente fra le righe. L’unico a parlarne esplicitamente è Enrico Morando, ricordando che lo statuto del Pd già ora prevede che il congresso si debba svolgere «non più tardi della primavera del 2013». Dunque, se si vota a scadenza naturale, «sarebbe meglio anticipare il congresso di qualche mese». In ogni caso, «non ci vengano a dirlo di rinviarlo!». Veltroni è più cauto. Nega di voler mettere in discussione la leadership attuale. Smentisce di proporre il governo di transizione solo per sbarrare la strada alla candidatura a premier di Bersani (anche questa sarebbe la conseguenza certa). Se lo fa, spiega, è perché è il modo migliore per accelerare la fine di Berlusconi. «Se diciamo “elezioni elezioni”, si blindano ancora di più». Ma qualche frecciata all’attuale segretario la scocca. La prima: «Noi non siamo una ditta ma una comunità di uomini e di donne unite da certi valori». La seconda: «La capacità di un leader è di dire le cose non quando sono accadute, ma prima». Ogni riferimento a Bersani, che ha elogiato la campagna per il referendum elettorale dopo averla osteggiata, è voluto. Nella saletta del Palazzo della Cooperazione le truppe della minoranza del Pd, a cui ieri, ma solo ieri, si sono aggiunti Enrico Letta e Dario Franceschini, procedono su questi due binari: il governo del presidente, sostenuto da «un’ampia base parlamentare» (cioè con dentro il Pdl) e guidato da «una personalità credibile a livello internazionale» (vedi Mario Monti), e lo stato di salute del Pd. Sul primo, sono d’accordo persino Franceschini e Letta. Proporre un governo di transizione, dice il capogruppo del Pd, «è un atto di responsabilità di fronte al Paese». Perché solo un esecutivo di quel tipo può fare «interventi strutturali di cui ognuno si prende un pezzo di responsabilità». Come dice Letta, occorre «dividere il costo politico» di riforme impopolari. Quanto all’Ulivo ristretto, formato solo da Pd, Idv, Sel, avverte Franceschini, «potremmo anche vincere, ma poi? Può una parte del Paese che ha la maggioranza in Parlamento ma non nel Paese, ricostruire il Paese?». La grande domanda, però, è sul Pd. Morando affronta la questione di petto: «Come mai il Pdl e il suo leader crollano e noi, il principale partito del centrosinistra, non prendiamo nulla, dico nulla, di quell’enorme flusso di voti in fuga?». Il fatto che nemmeno ci si faccia questa domanda - o venga additato a traditore chi la fa -, «è la prova che noi stessi non crediamo di essere l’alternativa al centrodestra». Critica l’incertezza del partito su tante questioni. Per esempio la deroga dal contratto nazionale. «Fino a ieri non si poteva dire che era giusto se no eri il nemico del popolo». O il fatto di non schierarsi tra le due opzioni: governo del presidente ed elezioni. «O l’uno o l’altro, non puoi essere per entrambi». Il fatto è che «siamo sempre al traino di qualcun’altro». Ora la Cgil, ora Vendola. Serve «un cambio di rotta», scandisce Paolo Gentiloni, perché il rischio è di «non essere all’altezza del Paese». E perciò di «essere coinvolti tutti nel disastro». Come accadde, ricorda Letta, con la caduta del muro di Berlino. Ed è un rischio, questo, evocato da tutti: che la fine del berlusconismo trascini tutti con sé. Occorre «più coraggio», attacca Fioroni, «invece continuiamo a balbettare». Sulle province, sul finanziamento pubblico dei partiti. Per il veltroniano Andrea Martella, «non riusciamo a essere una vera alternativa, non siamo percepiti come tali. E questo perché non riusciamo a mettere in campo proposte serie, coraggiose. Con la foto di Vasto non possiamo rappresentare l’alternativa». Il nuovo Ulivo? «È più malandato dell’Unione». E «il progetto del Pd è una speranza caduta». Anche Alessandro Maran, altro quarantenne veltroniano, evoca il rischio di un «naufragio del Pd». Le riforme che servono «esigono un coraggio che gli attuali leader del centrosinistra e del Pd non possiedono». Perciò, c’è solo una soluzione: «Lanciare una sfida politica nel Pd». Aperta, trasparente. Anche alla leaderhisp, sì. Perché «le idee e le leadership contano». Ed è applauditissimo l’intervento di Keren Ponzo, ragazza di Vicenza, che racconta di aver fatto la campagna elettorale all’ottavo mese di gravidanza. Ora le pesa un’ora passata ai gazebo. «Prima c’era il sogno, ora no. Nessuno si sente a casa. Le riunioni di circolo ormai sono diventate gruppi di auto-aiuto». Marco Follini, invece, si chiede quale sia la differenza «fra il nuovo Ulivo o la vecchia Unione». Lui, dice, non l’ha trovata. Figurarsi gli elettori. di Elisa Calessi