E intanto fa la diva a Seattle

Lucia Esposito

Amanda Knox superstar. Dal carcere alla gloria. E' arrivata a Seattle, la biondina con gli occhi di ghiaccio. Decine e decine di giornalisti di tutti i media americani, nazionali e locali, oltre alle grandi agenzie internazionali hanno atteso accalcati l'uno sull'altro per per ore all'aeroporto di Seattle il ritorno di Amanda Knox: e lei ha mostrato di non reggere a tanta pressione. Con la voce rotta dal pianto, ha ringraziato "tutti coloro che mi hanno dato  sostegno, a me e alla mia famiglia" e, quasi scusandosi, ha affermato di fare fatica a "ricordare l'inglese. Non sono più abituata". Guarda il Video su Libero Tv - Amanda: "Voglio riprendermi la mia vita" Una conferenza stampa improvvisata, allestita in un parcheggio dell' aeroporto. Un podio, con il microfono, e i giornalisti tenuti a distanza da robuste transenne. Prende la parola per primo uno dei legali della famiglia, l'avvocato Theodore Simon, per affermare che "il caso non stava in piedi", per esprime apprezzamento per "il coraggio" i giudici che hanno esaminato di nuovo tutta il caso in appello, e anche per ricordare che "Amanda e Meredith erano amiche". Poi è il turno del padre, Curt, che a sua volta ringrazia la città di Seattle e chiunque abbia creduto in Amanda, e soprattutto, il team di avvocati italiani, che hanno fatto "un lavoro magnifico". Quindi è il momento di Amanda. Sale sul podio esitante, accolta da un grande applauso, da molti dei giornalisti e da qualche supporter riuscito ad infiltrarsi. Fatica molto a riuscire a parlare. Facendo un respiro profondo, gesticolando nervosa, afferma che "guardando la mia città dall'aereo... non mi sembrava vero". Una pausa e, ancora quasi scusandosi, aggiunge che "ora la cosa più importante è la mia famiglia. Leggi il pezzo di Giampiero Mughini Fra un paio d’anni o forse meno nessun italiano rammenterà il nome e il volto della ragazza inglese Meredith Kercher, che pure era molto giovane quando venne sgozzata nella notte fra l’1 e il 2 novembre 2007 in un appartamentino da studenti a Perugia. Allo stesso modo nessuno ricorderà il nome e il volto di un ragazzone nero senza arte né parte, l’ivoriano Rudy Guede, che pure è stato condannato definitivamente a 16 anni perché lui c’era senz’altro e non si limitava a guardare mentre qualcuno stava massacrando Meredith. Meno che mai qualcuno ricorderà il nome di Raffaele Sollecito, il giovane studente pugliese che s’è trovato dentro una storia forse più grande di lui e che qualcuno ha definito «un allegato di Amanda». La studentessa americana Amanda Knox. La ragazza di Seattle bella, bionda, stuzzicante, ambigua, un incrocio riuscitissimo tra una dea e un demone, una che forse il colpo mortale a Meredith lo ha dato e forse no. La ragazza di cui lunedì sera un tribunale italiano ha detto che no, che non ci sono prove che sia stata lei a uccidere, e l’ha mandata libera. La ragazza di cui ci ricorderemo tutti negli anni e nei decenni perché, come ha scritto l’autore di un libro sul processo di Perugia uscito recentemente in America, contro la bellezza femminile la civiltà massmediatica non ha scampo. Amanda e solo lei resta del processo di Perugia, quei suoi sguardi ricercatissimi dai fotografi in cui lei sembrava guardare il mondo da sotto e in realtà lo dominava. Questo è il bilancio di un processo che dura da quattro anni. E meno male che l’abbiano assolta perché altrimenti c’era il pericolo che gli Usa, attizzati da un’opinione pubblica esasperatamente innocentista, ci mandava contro i marines a liberarla. E seppure sia una giornalista americana, Barbie Latza Nadeau, quella che le carte e i dettagli del processo li ha studiati a fondo a scrivere un libro dove s’è detta convinta della colpevolezza di Amanda e del suo boy-allegato. Ma che importa? Importa che nessun giornale italiano ieri s’è persa in prima pagina la foto di Amanda che scoppia in singhiozzi all’ascoltare che la giuria di  appello l’ha assolta. Quella sì che è una foto. Importa che ciascuno di noi solo quello tiene e trattiene del processo, le immagini della ragazza bionda che in aula aguzza gli occhioni intensi a cercare protezione e ammirazione, le sequenze dei telegiornali che la additano mentre lei arriva alle udienze talvolta truccata e talvolta meno ma pur sempre diva. Divissima come neppure uno sceneggiatore cinematografico avrebbe saputo immaginarla e crearla. Eroina massmediatica calzata e vestita dalla a alla zeta. Sorridente, sfuggente, provocante, l’aria di chi comunque prima o poi la sfanga. O forse ha ragione la sua abile avvocatessa, Giulia Buongiorno. Nel dire che siamo noi guardoni a immaginarla così, alla maniera di Jessica Rabbit, e magari lei è invece soltanto una ragazza latte e miele della provincia americana. Una ragazza di Seattle che era venuta in Italia e voleva divertirsi, uso del vibratore che sfoggiava  in camera sua ivi compreso. Che certo ne aveva il diritto di divertirsi, e nessuno lo nega e una cosa sono le manfrine fra ragazzi e ragazze poco più che ventenni e altra cosa un omicidio. Nessuno lo nega. Solo che in pochi altri casi come in questo, e a proposito di una storia tragica, c’è una tale lontananza tra la realtà possibile (su cui nessuno di noi ha l’ultima parola) e l’onda massmediatica. In nessun’altra storia il 90 per cento è suggestione, tifoserie che si schierano pro o contro l’avvincente eroina, volti di protagonisti giovani di cui non sai dire se sono straziati o strafurbi. O magari sono l’una e l’altra cosa assieme. Perché se davvero erano strafatti e tutto nel momento in cui giocavano con il reggiseno di Meredith, figuratevi se ricordano qualcosa di quelle ore in cui un gioco andava alla sua fine. Di quelle ore in cui moriva una ragazza inglese venuta a studiare l’italiano a Perugia, e di cui nessuno ancora sa spiegare il chi e il come e il perché. di Giampiero Mughini