Ecco il patto Alfano-Casini: uniti per il dopo Cavaliere
L’intesa esiste, è la tempistica che non corrisponde. Pier Ferdinando Casini immagina una fine ravvicinata dell’esperienza di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi; Angelino Alfano è per un’uscita di scena morbida e concordata, un percorso che arrivi fino al 2013. Senza traumi. Sempre se il presidente del Consiglio riesce a scavallare indenne le nuove grane all’orizzonte. Giudiziarie, economiche, politiche. L’obiettivo di Casini e Alfano, però, è comune: ricostruire la Casa delle Libertà. Con tutti i mattoncini. Cosa che non può avvenire finché c’è in pista lui, l’uomo di Arcore. Vero: Berlusconi, per certi versi, è l’unico elemento unificante del centrodestra. Per altri versi, però, l’antiberlusconismo è il discrimine che tiene pezzi significati dei moderati fuori dalla coalizione che governa il Paese. Vedi l’Udc e Fli. Che succede? Succede che ogni qualvolta la parabola del Cavaliere prende una piega discendente (e in questi giorni c’è tanta tensione nella maggioranza per l’arrivo di nuove intercettazioni imbarazzanti), a Palazzo torna a girare la voce del “patto” Casini-Alfano. TEMPI DIVERSI La trattativa è latente, l’accordo tacito. Cioè mai stipulato con una stretta di mano o celebrato con un pranzo, una portata, un soutè di cozze e vongole. La traiettoria politica dei due, per forza di cose, tende a convergere. Ma c’è asincronia. Pier conta i giorni col calendario Maya, ha fretta; Angelino è fedele a quello Gregoriano: che urgenza c’è di archiviare Berlusconi? A meno che non sia lui a fare il gesto: benedire pubblicamente le nozze tra i due, intestarsi l’operazione e fare il passo indietro. Levarsi dalla testa che Alfano accoltelli il suo mentore, please: l’ex Guardasigilli, se intende essere il nuovo leader del Pdl, deve farsi maratoneta, non centometrista. Se accelera le idi di marzo, il politico agrigentino perde l’autorevolezza insita nel suo status di delfino e si trova addosso tutti i colonnelli del partito (vedi Formigoni, Alemanno e via dicendo). Insomma: il segretario del Pdl va avanti per la sua strada e se lungo il cammino becca Casini, tanto meglio. «Ma Pier parte dal presupposto sbagliato che io debba farmi da parte», proprio l’altro giorno Silvio Berlusconi ha affrontato la questione dei popolari, uniti in Europa e divisi in Italia. Palazzo Grazioli, mercoledì sera: il Cavaliere attende a cena Alfano e Frattini, che sono i promotori della fondazione Ppe. Con loro, a via del Plebiscito, arriva anche Antonio Lopez-Isturiz, segretario generale del Partito popolare europeo. Pennette tricolori e analisi della delicata situazione politica italiana. E di una maggioranza uscita dalle urne, nel 2008, con numeri da primato e finita, a causa di defezioni legate a «motivi di ambizione personale» (leggi Fini), a doversi aggrappare al voto dei responsabili. Il futuro? Cazzuola e carriola, Silvio rivela l’intenzione di voler ricostruire il centrodestra nella sua formazione originaria: «Saremo noi a fare il grande centro, uniremo tutti i partiti che si riconoscono nei valori del Ppe, è l’eredità che voglio lasciare al mio Paese», assicura all’ospite spagnolo. Il terzo polo? «È un’operazione che non sta in piedi». E ieri Alfano, parlando alla summer school del Pdl, è tornato a rivolgersi ai centristi: «Facciamo la casa dei moderati e torneremo a rivincere le elezioni». L'AMICO FEDELE Pier? Aspetta gli eventi. Manda messaggi a Berlusconi attraverso l’amico comune Fedele Confalonieri. Ambasciate («Molla e ragioniamo») che Silvio rispedisce cortesemente al mittente: «Mica mi fido». Casini rimane attonito leggendo l’intervista in cui Buttiglione offre «un salvacondotto giudiziario» al premier in cambio delle sue dimissioni: «Se non conoscessimo Rocco, penseremmo che l’ha fatto apposta per far saltare la trattativa». Il leader centrista vede Berlusconi vacillare e cerca di capire se è assestamento o fine imminente: qualora il premier cadesse sotto i colpi di una nuova offensiva giudiziaria, ragionano gli Udc, «duecento deputati del Pdl sono pronti ad aderire a un’alleanza politica allargata all’Udc». Già, ma se non cade? Altre iniziative tipo quella di Pisanu, modello “14 dicembre”, sono giudicate «velleitarie» dalla vecchia volpe democristiana. La situazione economica è troppo drammatica per una congiura di Palazzo fondata sull’ammutinamento di una decina di parlamentari. Napolitano non permetterebbe. Eppoi è il Partito democratico che non vuole: sotto sotto, a Bersani e ai suoi, conviene rosolare il governo fino al 2013 lasciando che sia il Cavaliere a prendere le misure più impopolari per far fronte alla crisi. Mica sono scemi, i democratici. di Salvatore Dama