Chi la manovra la paga... Chi vive a sbafo per 20 anni

Andrea Tempestini

Arriva la manovra. C'è chi paga e chi non paga. Da un lato l'aumento al 21% dell'Iva che andrà a colpire giochi, auto e vestiti: per le famiglie è una botta da 100 euro. Dall'altro c'è chi vive a sbafo per vent'anni, a carico dell'Inps: i contributi versati non bastano. Gli articoli di Alessandro Giorgiutti e Francesco De Dominicis. Una spesa in continua crescita: oltre 192 miliardi di euro nel 2009, più 3,7 per cento sull’anno precedente (nel 2008 l’aumento era stato del 4,2 per cento). Un deficit di 8,9 miliardi. Finanziamenti statali aggiuntivi pari ad altri 75 miliardi. Per il sistema pensionistico italiano, i conti non tornano. E impietosamente  («è così difficile dire queste verità agli italiani? Evidentemente sì»)  questi conti li ha messi nero su bianco ieri,  sul Corriere della Sera, Alberto Brambilla, presidente del Nucleo di valutazione della spesa previdenziale presso il ministero del Lavoro, già presidente di una commissione che esattamente dieci anni fa  radiografò    gli squilibri del settore, mettendo insieme due voci che risultò impossibile  far combaciare: i contributi versati e gli anni effettivi di pensione. Si era, all’epoca, nel 2001. Il secondo governo Berlusconi (dopo la sfortunata esperienza del 1994-’95) sembrava intenzionato ad affrontare il nodo gordiano della spesa pensionistica  tagliandolo con l’accetta. Nel frattempo, la riforma Dini aveva posto fine, con gradualità, al sistema retributivo, introducendo il metodo contributivo. Se fino a quel momento  il  vitalizio era calcolato sulla base delle retribuzioni percepite negli ultimi anni lavorativi, da quel momento, dopo un breve interregno con sistema misto, la pensione sarebbe stata calcolata sui contributi realmente versati nel corso dell’intera vita lavorativa. (Di qui,  la stima di pensioni più basse e il consiglio di ricorrere alla previdenza integrativa per rimpolparle.)  Intanto, però, le pensioni commisurate agli ultimi stipendi continuavano, e continuano, ad essere erogate. Rendendosi responsabili dell’aumento costante della spesa, di cui si diceva. La commissione Brambilla decise di quantificare questa spesa: categoria per categoria, sommò tutti i contributi versati nel corso della vita lavorativa e li capitalizzò al tasso d’interesse dei titoli di Stato. Quindi, divise il  “montante”   così calcolato  per l’importo annuo della pensione   erogata: il risultato avrebbe indicato  il numero degli anni coperti effettivamente dai contributi.  Si scoprì  che molti   anni erano  “scoperti”. E, pertanto, non pagati dai lavoratori (e dai datori di lavoro) con i contributi, ma dallo Stato con la fiscalità generale. Insomma, chi andava, e va,  in pensione con il sistema retributivo copriva, e copre,  con i suoi contributi soltanto una parte degli anni di pensione: il resto era, ed è,  a carico della collettività.  Qualche esempio. Come si legge nella tabella a fianco, un dipendente pubblico ritiratosi dal lavoro  tra 1970 e 2005 ha accumulato nel corso della sua vita lavorativa un “montante” contributivo pari a  quasi 15 anni di vita. Ma andando in pensione a 65 anni poteva sperare di viverne altri 19 (per la precisione, la cifra era calcolata sommando le stime sulla vita residua del lavoratore e quelle sulla vita residua del coniuge superstite). Ritirandosi a 58 anni, gli anni di vita inattiva diventavano più di 25. Il pensionato avrebbe pertanto vissuto interamente a carico dello Stato rispettivamente per quattro e per dieci anni. Per il dipendente privato le cose non cambiavano   di molto: grazie ai suoi contributi si è messo a posto per 17 anni. Ma andando a riposo a 58 anni gliene restano mediamente 25: per otto anni la sua pensione gliela paga interamente lo Stato. Per gli autonomi lo squilibrio è ancora più evidente. I loro contributi  “coprono”   poco più di cinque anni. Ritirandosi a 65 anni, però, gliene rimangono in media 19. Che diventano 25 per chi si ritira a 58 anni. Di questi, venti sarebbero a carico della collettività. Tutto questo, nel 2001. E oggi? La situazione non è migliorata, avverte Brambilla, tanto che «abbiamo ancora un 40 per cento di soggetti che nel difficile futuro dovremmo (non so se le condizioni economiche lo consentiranno) assistere finanziariamente». Certo, prima o poi, il flusso dei “reduci” del retributivo si interromperà e i conti torneranno in ordine. Ma  con gradualità. Molta gradualità: i primi ad andare in pensione col sistema misto (quelli che nel 2005 avevano meno di 18 anni di anzianità) lo faranno nel 2014. E per vedere il sistema in equilibrio, quando ogni lavoratore si pagherà l’intero trattamento previdenziale con i contributi accantonati, bisognerà aspettare il 2045. di Alessandro Giorgiutti Automobili, vestiti e giochi. Sono i settori che corrono il rischio di essere più colpiti dall’aumento dell’Iva deciso dal governo e infilato al fotofinish nella manovra bis sui conti pubblici. Lombardia, Lazio e Veneto - guardando da un punto di vista geografico - le regioni più colpite dal  ritocco all’insù dell’imposta sui consumi. A poche ore di distanza dal giro di boa, al Senato, della finanziaria d’emergenza, gli addetti ai lavori valutano il giro di vite fiscale, con le prime mappe sugli effetti per i consumi e per il gettito.  L’esecutivo di Silvio Berlusconi ha preferito non agire sulle aliquote Iva agevolate al 4% e al 10%. Mentre ha portato quella  ordinaria  dal 20% al 21%.  Ritocco che  a regime, nel 2013, porterà nella casse dello Stato circa 4 miliardi di euro l’anno (700 milioni nell’ultimo scorcio del 2011). Cifra che contrbuisce ad alzare il saldo finale della manvora bis da 45,5 miliardi a 54,2: un record per il nostro Paese.   La Cgia di Mestre ha già calcolato l’aggravio per famiglia: varia da reddito a tipo di nucleo e - secondo gli artigiani di Mestre - può arrivare al massimo fino a 123 euro. Il  punto in più di Iva voluto dal governo per tenere a galla i conti pubblici si ripercuoterà quasi inevitabilmente sui prezzi dei beni e dei servizi. Lo shopping è destinato a diventare un po’ più caro. E la Cgia ha preso in considerazione le fasce di reddito che vanno da un minimo di 15mila ad un massimo di 55mila euro e per ognuna di esse ha calcolata l’incidenza dell’aumento in diversi casi. Per un reddito di 15mila euro si va da un aggravio annuo di 37,54 euro senza famigliari a carico ad uno di 60,64 con coniuge e 2 figli; per i redditi di 30mila euro le cifre passano da 58,27 a 77,84 euro. L’ultima fascia di reddito considerata, ovvero gli stipendi, di 55mila euro è chiaramente quella con gli aumenti più consistenti con un minimo di 99,75 per coloro che non hanno familiari a carico ad un massimo di 123,21 per chi ha coniuge e 2 figli.   Il conto più salto, sul piano geografico, arriverà nelle zone settentrionali. Con l’eccezione del Lazio, infatti, sono prevalentemente del Nord le regioni in testa alla classifica del gettito sul territorio. Sui 4,1 miliardi stimati come gettito in più, quasi 1 (960,9 milioni per l’esattezza) saranno assicurati dalla Lombardia. Quasi il doppio rispetto ai 597,2 millioni del Lazio e il triplo rispetto ai 395 milioni del Veneto. Nel ranking, poi, seguono Emilia-Romagna (330,7), Piemonte (297,9) e Toscana (253,4). Minimo, invece, l’apporto di Umbria (61,3 milioni), Abruzzo (60,1 milioni) e Basilicata (22 milioni).  Sullo sfondo i timori delle associazioni di categoria, dei commercianti e dei consumatori. Per Confcommercio il rischio è che «l’Italia paghi, tutta insieme, un conto davvero troppo pesante». «Ogni aumento dell’Iva - ha osservato  Confesercenti - si va tra l'altro a sommare ai recenti rialzi delle materie prime che a sua volta stanno surriscaldando l’inflazione». Per il Codacons la decisione di aumentare l’Iva è «da irresponsabili» e va a a colpire anche le famiglie più povere. L’aumento dell’Iva - ha sottolineato Federalimentare - riguarda un terzo dei prodotti alimentari abitualmente acquistati e, considerato che si viene già da cinque anni di flessione nei consumi alimentari domestici, frena ogni possibilità di rimbalzo della spesa e incentiva l’inflazione. C’è da dire che l’eventuale incremento dell’aliquota ordinaria Iva fa salire tra l’altro l’Italia in testa alla classifica dei vari regimi di aliquote ordinarie praticati dai maggiori Paesi europei. In Germania è infatti al 19,6%, in Francia al 19,6%, in Spagna al 18%, e in Gran Bretagna si attesta al 20%. di Francesco De Dominicis