Ricette Caro Stato, vendere non può bastare: servono riforme. O ci mangiamo i ricavi
Due giorni fa la notizia era che il governo intendeva varare un piano straordinario di vendita del patrimonio immobiliare pubblico. Il progetto prevedeva di metterne sul mercato il 40%, mossa che avrebbe potuto fruttare qualcosa come 200 miliardi di euro. Sarebbe stata una rivoluzione. La notizia di ieri, infatti, è che ci stanno ripensando. Dalla maggioranza ora dicono che si trattava di un’idea tirata fuori senza valutarne bene le possibili conseguenze. Antonio Azzollini, presidente della Commissione Bilancio del Senato, spiega che la cessione degli immobili pubblici «è solo un’ipotesi» della quale è «prematuro parlare». Intanto la definizione di nuove regole per le pensioni è bloccata dai veti della Lega e dei sindacati (questi ultimi hanno proprio negli ex lavoratori la quota maggiore di iscritti). Il rischio concreto, insomma, è di non riuscire a fare le uniche due cose necessarie: una decisa riduzione del debito, che è possibile solo dismettendo una quota consistente del patrimonio pubblico, e il taglio della spesa pubblica corrente, necessario a impedire che la pubblica amministrazione si indebiti ulteriormente anno dopo anno. Le due cose vanno fatte insieme. È sbagliato vendere il patrimonio per ridurre il debito se prima le spese dello Stato non sono diventate inferiori alle entrate, o almeno pari ad esse. In caso contrario, tempo pochi anni, il nuovo indebitamento riporterebbe lo stock del debito pubblico ai livelli precedenti alle dismissioni. Con la differenza che per ridurre il numero dei titoli del Tesoro in circolazione non si potrebbe più mettere mano al patrimonio: ce lo saremmo già venduto, tutto o in parte. L’unica via d’uscita quindi è adottare il modello che ai tempi di Luigi Einaudi si definiva «del buon padre di famiglia». Se una famiglia è fortemente indebitata, ricorre in continuazione a nuovi prestiti e paga pesanti interessi sul proprio debito, come fa l’Italia, il padre assennato è obbligato a riportare in equilibrio entrate e uscite, in modo da smettere di indebitarsi; quindi deve vendere il vendibile e usare il ricavato per ridurre il debito. Cedere i beni di casa senza aver riportato in pareggio entrate e uscite sarebbe una follia. Ma non fare nulla - né stabilizzare i conti né abbattere il debito - sarebbe un errore altrettanto grave. Eppure è quello che rischia di succedere. Per riequilibrare le entrate e le spese, o si aumentano le prime o si riducono le seconde. La prima strada, malgrado al governo sembri piacere, è impraticabile. Intanto da un punto vista politico: l’innalzamento della pressione fiscale è l’esatto contrario di quanto detto da Silvio Berlusconi in tutta la propria vita, e di ciò che la maggioranza degli italiani si attende da lui. È impraticabile da un punto di vista economico: la mucca-contribuente è stata munta sino all’inverosimile, e con un’ulteriore strizzata rischia di schiattare o di portare all’estero i propri capitali e la propria attività, anche solo per sopravvivere. Infine è una strada che non dovrebbe essere percorsa per motivi etici: se la manovra verrà varata così com’è, l’Italia scoprirà di essere il Paese con la pressione fiscale più alta del mondo, superiore al 50%; lavorare 6 giorni su 10 per lo Stato, come toccherà fare ai professionisti, è qualcosa di molto simile alla schiavitù. Il buon padre di famiglia, a questo punto, si rimboccherebbe le maniche per tagliare le spese. E non è che qui le scelte siano molte. La spesa pubblica corrente, cioè quella non indirizzata agli investimenti, oggi è destinata per oltre il 60% alle prestazioni di protezione sociale: pensioni, sanità, assistenza. La previdenza, in particolare, rappresenta il 66% della spesa per il welfare. Impossibile, dunque, pensare di ridurre le uscite senza mettere mano alla spesa pensionistica. Tagliando gli assegni? No, anche questa strada è impercorribile, di sicuro per i pensionati a reddito medio-basso. La riduzione della spesa previdenziale, però, si otterrebbe anche innalzando in tempi rapidi l’età pensionabile, avvicinandola alla soglia dei 70 anni ed equiparandola per gli uomini e le donne. È la richiesta di Giorgio Stracquadanio e degli altri frondisti del Pdl. Appare anche nel manifesto scritto da Nicola Rossi, ex consigliere economico di Massimo D’Alema, per Italia Futura, il think tank di Luca Cordero di Montezemolo. Ed è condivisa dagli elementi più responsabili dell’opposizione, come il senatore del Pd Enrico Morando e il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini. Resta da vedere se governo e parlamento troveranno la forza di sfilare alla mano pubblica immobili e società controllate dallo Stato, che di fatto oggi sono nella disponibilità della classe politica, e se avranno il coraggio di superare i veti politici e sindacali che vogliono impedire l’innalzamento dell’età pensionabile verso valori più vicini a quelli degli altri Paesi europei. Visti i precedenti e conoscendo la stoffa della nostra classe dirigente, l’ipotesi più probabile è che niente di questo venga fatto. Simili problemi, se non vengono risolti, restano però lì, ad aumentare i nostri debiti. Rimandare la soluzione servirebbe solo a peggiorare le cose: saremmo costretti a fare domani gli stessi interventi che sarebbero stati necessari da tempo. Ma realizzarli domani avrebbe un prezzo più alto di quello, già pesante, che siamo chiamati a pagare oggi. di Fausto Carioti