Sforbiciata a 50mila poltrone: così la casta prova a limitarsi
Dubitare è obbligatorio, ma sperare (almeno questo) è lecito e non costa nulla. Dentro la colossale manovra biennale da 45 miliardi di euro annunciata ieri dal governo non ci sono solo le nuove tasse che faranno aumentare la pressione fiscale e piangere il ceto medio, ma anche riduzioni della spesa pubblica e del budget della classe politica. Si poteva - e si doveva - fare di più, ma intanto si prende quello che arriva, si ringrazia perché i soldi previsti come tagli alle spese potevano essere cercati tramite ulteriori entrate fiscali e si spera, appunto, che governo e Parlamento la cura dimagrante al bilancio pubblico, dopo averla scritta sulla carta, riescano davvero a metterla in pratica. Sarebbe una piacevole novità. Il progetto, così come lo hanno concordato Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti, prevede che nel biennio 2012-2013 si recuperino 8,5 miliardi dai tagli ai ministeri, cioè dal fondo cassa dello Stato centrale. Cifra analoga, 9,5 miliardi, dovrebbero fruttare i tagli dei trasferimenti alle Regioni e agli enti locali. L’efficacia della prima voce, la riduzione del budget dello Stato centrale, dipende da cosa accade dopo. A organizzazione invariata, se cioè non si riducono e razionalizzano i centri di spesa, il rischio di non riuscire a combinare nulla è concreto. Ma se si tagliano enti inutili, si accorpano uffici e funzioni e si riduce il personale, lo spazio per risparmiare sulla spesa corrente si crea. Simili operazioni, però, producono malcontento: nessun settore della burocrazia accetta di farsi tagliare o assorbire da un altro, a meno che il cambio non sia vantaggioso per gli interessati (e cioè oneroso per le casse dello Stato). Domanda: il governo, e anche il Parlamento, hanno la forza e la volontà politica di potare la pianta della pubblica amministrazione, riducendo il numero dei dipendenti e scontentando la dirigenza? Il dubbio che una simile rivoluzione sia nelle corde della nostra classe politica è molto forte. E il fatto che le elezioni siano già all’orizzonte - entro il 2013 si vota – rende l’adozione di decisioni così impopolari ancora più difficile. Quanto ai tagli agli enti locali, la storia recente e le reazioni manifestate ieri dai diretti interessati fanno intuire il probabile esito della vicenda. Regioni, Province e Comuni avranno infatti la forte tentazione di compensare la riduzione dei trasferimenti, in tutto o in parte, azionando le leve fiscali a loro disposizione. Cioè aumentando le addizionali Irpef e i balzelli, non prima di averne data la colpa al governo cattivo. E questo accadrebbe in totale coerenza con i principi del federalismo, che si basa proprio sull’autonomia fiscale degli enti periferici. Impedire un simile esito spetterebbe agli amministratori locali, alla loro capacità di ridurre le spese. Ma la qualità di cui sono fatti costoro non pare migliore di quella di chi siede in Parlamento o al governo. Ecco perché, di tutti i tagli annunciati ieri, quello più importante non è la riduzione di qualche budget, ma la soppressione nuda e cruda di un congruo numero di Comuni e Province. Il progetto esaminato a palazzo Chigi prevede di abolire le Province sotto i 300.000 abitanti, che sono 36, e fondere con altri i 1.500 Comuni che hanno meno di mille cittadini. Allo stesso tempo sarebbe ridotto il numero dei componenti dei Consigli regionali. In tutto, secondo le stime circolate ieri tra i ministri, scomparirebbero oltre 50mila poltrone. Al di là dei risparmi che questo comporterebbe, sarebbe il primo segnale che la classe politica italiana ha compreso che si è allargata troppo e che i contribuenti non possono più permettersi tante bocche da sfamare. Certo, le cose da fare sarebbero molte di più: le Province, ad esempio, non dovrebbero essere ridotte, ma abolite, come si era impegnato a fare il Pdl. Ma sarebbe già un miracolo realizzare quanto promesso ieri. Tanto da far dubitare che governo e Parlamento possano riuscire nell’impresa. La Lega, che si è sempre schierata in difesa delle Province, è disposta ad accettare il colpo di mannaia sui propri feudi? I parlamentari approveranno davvero la riduzione del numero dei consiglieri regionali, incarico con il quale parecchi di loro pensavano di garantirsi una pensione dorata? Saranno capaci, senatori e deputati nei cui collegi si trovano i piccoli comuni da abolire, di resistere alle pressioni degli elettori? Dalle risposte che arriveranno a queste domande si capirà se la classe politica italiana ha compreso che è venuto il momento di fare sul serio. O se è davvero così inadeguata come spesso dà motivo di credere. di Fausto Carioti