Il Cav impone la pace ma così scarica il Divo Giulio. Sulla gaffe e la manovra, col ministro è frattura totale
Silvio Berlusconi fa da paciere con tutti, tranne che con Giulio Tremonti. Anzi, contrattacca col sorriso sulle labbra e accusa il ministro dell'Economia sulla norma salva-Fininvest. Intervenuto alla presentazione del libro del deputato 'responsabile' Domenico Scilipoti Scilipoti re dei peones, il presidente del Consiglio ritorna sulla questione manovra e affonda: "Non sono io che ho scritto quella norma (la cosiddetta salva-Finivest, ndr) ma siamo in un Paese in cui non c'è legge giusta che possa passare se favorisce Berlusconi o le sue aziende". Detto che "la Fininvest si salva senza bisogno di alcuna norma", il Cavaliere mette i puntini sulle 'i': "Tremonti considerava quella norma sacrosanta e non ha ritenuto di portarla al voto del Consiglio dei ministri pensando che fossero tutti d'accordo ed io ne ho avuto la conferma perché ad esempio Calderoli che non la conosceva mi ha detto 'Perbacco se lo sapevo la potevo scrivere meglio'". Detto dopo che Tremonti aveva scaricato sul sottosegretario Gianni Letta la responsabilità del Lodo ("Chiedetelo a lui...") suona quasi come un assalto frontale. Ma sul lodo-Mondadori il Cav non molla: "Non era un intervento ad peronsam - ha spiegato -, ma era una cosa giusta fatta in favore di molte, moltissime aziende, in particolare quelle nel campo dei lavori pubblici". Così Berlusconi ha anche ipotizzato di inserire la norma in Parlamento: "Ci sarà a breve una sentenza. Dopo, quindi, si potrà pensare di reinserirla in Parlamento, perché non sarà più considerata una norma solo per la Fininvest". Il Cav sta con Renato - Tra una difesa di Scilipoti ("E' l'esempio delle campagne di aggressione personali tipiche della sinistra, nessuno meglio di me le conosce"), un rilancio del piano di governo ("Completeremo la legislatura facendo le riforme necessarie per ridurre i costi della politica" e un colpo di reni ("Resterò al governo fino alla fine della legislatura, nonostante il fango che mi viene gettato addosso e nonostante quello che si vorrebbe decidere nei cosiddetti e fantomatici salotti dei poteri forti"), Berlusconi ha trovato il tempo di dare un colpo di telefono a Renato Brunetta, protagonista involontario della gaffe di Tremonti che gli ha dato del "cretino". La pace tra i due ministri è arrivata, ma è stata annunciata dal solo Brunetta. I più cattivi sussurano che in realtà sia stato proprio Berlusconi a intervenire direttamente e indurre i due litiganti alla pace. Ben accolta da Renato, forzata per Giulio. Un'altra scornata. Berlusconi sottolinea poi come in Italia ci sia "una tentazione alla scorciatoia e al tatticismo irrinunciabile", a braccetto coi poteri forti, e "una opposizione che non si rassegna, non riesce a giocare una partita all'interno delle regole democratiche, ma è pronta ad usare ogni mezzo per ostacolare il Governo, dalle manovre parlamentari alla strumentalizzazioni dei risultati dei referendum e delle elezioni amministrative". A qualcuno viene in mente, insieme ai nomi di Bersani, Vendola e Di Pietro, anche quello di Tremonti, passato in fretta da colonna del Pdl a mina vagante. Silvio stanco di comunisti e fronda interna. Leggi l'articolo di Barbara Romano su Libero «Avete deciso di mollarmi? Sono io che mollo voi». La tentazione c’è. Per la prima volta dopo diciassette anni di vita politica, Silvio Berlusconi è assalito dalla voglia di salutare il pubblico e uscire di scena. Troppi i fischi in platea e le trame dietro le quinte. «Sono stufo», ha confessato ieri mattina a uno dei dirigenti più quotati del Pdl. «Stufo» di incassare i colpi della magistratura e gli insulti di detrattori e avversari. Ma «stufo» soprattutto di doversi anche guardare alle spalle. «Che i comunisti vogliano vedermi morto ci sta», si è sfogato il premier, che ha messo nel conto anche un altro imminente assalto politico delle procure. «Ma se sono i miei ministri a volermi rovinare mi cascano le braccia». Non ha fatto nomi il presidente del Consiglio. Ma è chiaro il riferimento al titolare dell’Economia: l’avversario interno numero uno da quando nel Pdl non c’è più Gianfranco Fini. Il Cavaliere non ne può più, soprattutto perché si contano sulle dita di mezza mano gli uomini di cui sente di potersi ancora fidare. Per la prima volta dalla sua discesa in campo lo sfiora il sospetto che il gioco non valga più la candela. E se non getta la spugna è solo per non darla vinta ai suoi rivali politici - Fini, la lobby di Repubblica - e soprattutto alle toghe, che sono la vera molla della sua discesa in campo. Berlusconi in questi anni non ha fatto che ripetere, soprattutto nei passaggi più insidiosi dei suoi governi, che non si sarebbe tolto la grisaglia se prima non avesse realizzato la riforma della giustizia. Ma da un po’ di tempo a questa parte il leader del Pdl avverte che il partito lo segue fiaccamente nella sua battaglia contro la magistratura politicizzata. Tema con il quale per anni ha galvanizzato eletti ed elettori. Ma laddove prima coglieva entusiasmo e dedizione alla causa, oggi fiuta indifferenza, quando non insofferenza. Una noncuranza dolosa. Il premier sospetta che chi oggi minimizza quel disegno sovversivo che lui ha sempre imputato a certe frange della magistratura, lo fa per accelerare la sua dipartita (politica). Di qui l’ossessione, che lui ripete come un mantra o ogni interlocutore: «Vogliono la mia pelle». Il timore è diventato certezza dopo l’affaire del lodo Mondadori. Si sono sprecati in questi tre anni di governo gli scontri istituzionali con Giorgio Napolitano. E i rapporti con la Lega ormai non sono certo rose e fiori. Ma al premier non era mai capitato di sentirsi così stretto nella tenaglia del Colle e del Carroccio. E nessuno gli toglie dalla testa che dietro questo «agguato» ci sia la regia di Tremonti, che lui accusa di aver fatto da sponda ai veti incrociati del Quirinale e della Lega. A un membro di governo il premier si è detto «disgustato» dal «doppio gioco» del superministro, che non avrebbe mai posto alcuna obiezione alla norma salva-azienda, secondo la versione che il premier ha fornito alla sua cerchia più ristretta. Stando a Berlusconi, il titolare dell’Economia avrebbe infatti afferrato senza battere ciglio il foglietto con su scritto il comma incriminato, per poi girarlo al Colle. Eppure, si apprende da via dell’Umiltà, era da un po’ che circolava l’idea. Idea che il presidente del Consiglio aveva illustrato anche ai leghisti, i quali, a suo dire, «non sembravano così scandalizzati». Ma la vera ragione di amarezza per Berlusconi è essersi ritrovato solo in una congiuntura così negativa. Tra Niccolò Ghedini, il suo legale di fiducia che smentiva la paternità del comma salva-Fininvest, il ministro leghista Roberto Calderoli che giurava di non saperne niente, e altri esponenti di governo che assicuravano di non averne sentito parlare all’ultimo Consiglio dei ministri, è stato tutto un fuggi fuggi nella maggioranza quando è scoppiata la bomba del lodo Mondadori. È questo scaricabarile che sta scavando delusione e stanchezza per la politica nel premier, furibondo per come (non) è stato difeso non solo dagli alleati, ma dal suo stesso partito. Ecco perché non si è appalesato martedì sera alla riunione del gruppo parlamentare del Pdl convocato nella Sala della Lupa di Montecitorio. Non per non fare ombra al segretario neoeletto Angelino Alfano, ma per questo senso crescente di distanza che prova verso la sua maggioranza e il suo partito, nel quale fa sempre più fatica a riconoscersi. Un luogo politico che Berlusconi aveva progettato come la Casa delle libertà e che oggi percepisce come un covo di «spie» e di «ingrati». di Barbara Romano