Il nuovo Egitto come il vecchio Dov'è la 'primavera araba'?

Andrea Tempestini

Con oltre un migliaio di feriti nelle manifestazioni che si sono svolte al Cairo negli ultimi due giorni, l’Egitto torna a chiedersi se l’esito delle rivolte non stia scivolando verso una guerra civile. Nel calendario, i “giorni della rabbia” si moltiplicano. Il ministero dell’Interno, che ha fermato almeno quaranta persone tra cui un americano e un britannico, attacca i familiari delle vittime uccise negli scontri dei mesi scorsi, accusandoli di aver tentato di fare irruzione nel teatro Balloon nel quartiere di Agouza, nella capitale, dove si teneva una cerimonia di commemorazione. Diversa la versione degli attivisti, secondo i quali sarebbero state le forze di sicurezza a impedire loro di partecipare all’evento. Da lì, gli scontri e il successivo intervento della polizia che, secondo alcuni blogger, ha «cominciato a malmenare i familiari dei martiri». Centinaia di giovani hanno risposto lanciando pietre contro le forze di sicurezza e dirigendosi poi a Piazza Tahrir. Il ministero dell’Interno, tramite un comunicato ha accusato «persone che sostengono di essere familiari dei martiri» di aver cercato di «irrompere nel teatro». Il corrispondente di Al Jazeera al Cairo riferisce che i dimostranti, al grido di «abbasso la giunta militare», si sono diretti «a Piazza Tahrir e sostanzialmente verso il ministero degli Interni», chiedendo ai militari al potere di velocizzare i processi contro gli ufficiali di polizia accusati di violenze commesse nella rivoluzione che ha portato alla cacciata di Hosni Mubarak. Per il primo ministro Essam Sharaf, che lo scorso aprile ha sostituito Ahmed Shafiq alla guida del governo, occorre «mettere in sicurezza quello che è stato ottenuto dalla Rivoluzione». Per lanciare un segnale di disponibilità, il premier ha dato l'ordine alla polizia di ritirarsi dalla piazza. Il Consiglio Supremo delle Forze armate, con un comunicato postato su Facebook, ha bocciato le proteste, esortando la popolazione a non lasciarsi coinvolgere nei tentativi di destabilizzare il Paese. Questi eventi, si legge, «non hanno alcuna giustificazione se non quella di minare la stabilità e la sicurezza in Egitto in base a un piano calcolato e coordinato nel quale il sangue dei martiri della rivoluzione viene usato per causare una frattura fra i rivoluzionari e gli apparati di sicurezza». Con le violenze, torna anche la teoria del complotto, l’antico vizio di indicare i responsabili del caos e delle sventure del Medio Oriente negli avversari politici. «Sono i membri del vecchio partito di Mubarak a creare i disordini nella capitale egiziana del Cairo», accusa Muntasser al-Zayat, avvocato di gruppi integralisti egiziani. Punta il dito contro gli uomini del vecchio regime che avrebbero assoldato «bulli» e provocatori, che sono stati visti circolare liberamente in vari quartieri della capitale, come Sayyida Zeinab e Al Azhar, con armi bianche. Si tratta di persone, precisa il difensore dei terroristi, che si muovono solo a pagamento. Inoltre, prosegue Al Zayat, vi sono altre forze politiche, come i comunisti e la sinistra in generale, che hanno interesse ad aumentare la confusione e ostacolare la marcia della democratizzazione nel Paese. È più o meno la stessa versione che circola fra i manifestanti, che ricordano come nei giorni scorsi la corte amministrativa abbia sciolto i consigli comunale di tutto il Paese, controllati dagli esponenti del Pnd di Mubarak. E anche il partito moderato Wafd accusa gli ex di Mubarak. Si cerca un nuovo capro espiatorio. In cima alla lista, per ora, c’è l’ex ministro dell’Interno Habib El Adly, seguito da Hussein Tantawi, capo del consiglio militare che regge provvisoriamente il Paese. Nel clima di caccia al nemico, oggi è attesa la sentenza sulla morte di Khaled Said, il giovane di Alessandria ucciso dalla polizia e divenuto il simbolo della protesta egiziana. di Andrea Morigi