Berlusconi rifila una spallata a Bersani, Di Pietro e Fini

Andrea Tempestini

"Un, due, tre, spallata". La sinistra e le opposizioni ci sperano da immemore tempo. Cominciarono a crederci quando a Gianfranco Fini furono rubate le frasi sul "cesarismo" di Silvio Berlusconi. Parole troppo pesanti perché quell'alleanza potesse reggere. E in effeti, di tensione in tensione, passando per Montecarlo e per il "Che fai? mi cacci", quell'alleanza è collassata. Fini se n'è andato, ha creato la pattuglia futurista e ha cominciato a sussurrare: "Un, due, tre, spallata". Lo scorso 14 dicembre più che un sussurro - quello di Fini e con lui Bersani, Casini, Di Pietro e compagnia bella - era un grido di battaglia. Era tutto pronto. Era tutto sicuro. Berlusconi sarebbe stato sfiduciato. E invece... Solito copione - Il copione negli ultimi mesi non è cambiato molto. Ogni occasione è buona per sotterrare questo governo e lasciarsi alla spalle, definitivamente, il ventennio marchiato dal Cavaliere. Così arrivano le amministrative vinte da Pisapia e De Magistris. Non esattamente due esponenti della formazione politica che oggi sostiene di rappresentare la maggioranza relativa, ovvero il Partito Democratico. Ma il ritornello non è cambiato: tutti sul carro del vincitore, tutti a dire che la maggioranza si è squagliata, che la maggioranza c'è soltanto in Parlamento (come se quest'ultimo fosse un dettaglio di poco conto). Questa maggioranza, però in aula esiste ed è solida: l'ultima dimostrazione è arrivata martedì con la fiducia sul dl Sviluppo. I numeri crescono. Questo accade grazie anche ai cosiddetti Responsabili, i 'fuoriusciti' da diversi partiti che si sono reinventati terza gamba del governo e proseguire nel piano di riforme. Questi Responsabili hanno - per l'ennesima volta - costretto Giorgio Napolitano a bacchettare la maggioranza. "L'esecutivo è cambiato - argomentava il Capo dello Stato -. Serve una verifica in Parlamento sulla nuova formazione". Sfiducia e fiducia - La richiesta di Napolitano era arrivata prima della amministrative e prima del referendum. La tornata referendaria si era trasformata - ancora una volta e nonostante la posizione soft tenuta da Berlsconi - nell'ultimo test su Cavaliere: se vincono i 'no' sarà vita, se vincono i 'sì' sarà morte (del governo, chiaro). Lo stesso Napolitano, sui quesiti, ha voluto dire la sua: "Andrò a votare". Il responso dell urne è stato nettisimo: hanno vinto i 'sì' a valanga. E così, da gran parte dell'arcobaleno parlamentare, dagli schermi delle televisioni, dalle piazze gremite dalle pattuglie anti-berlusconiane, ha cominciato a levarsi il solito coro: "Un, due, tre, spallata". In questo clima da caccia alle streghe, si è arrivati al già citato voto di fiducia sul dl Sviluppo. Risultato? Nessuna spallata. I numeri parlano di un governo ben in sella, mai così saldo dai tempi dell'addio di Gianfranco Fini. Dal Capo dello Stato, però, non è arrivato nemmeno un cenno istituzionale, nemmeno una parola che certificasse lo stato di buona salute del governo, riuscito a ricompattarsi anche dopo l'adunata leghista di Pontida, dopo le tensioni per il trasferimento dei ministeri e quelle per l'impegno militare in Libia. L'ultima verifica - Successivamente al voto sul dl Sviluppo, Berlusconi è tornato a Montecitorio: il giorno della verifica per la maggioranza è arrivato, anche se di 'test', come ha ricordato martedì Angelino Alfano, "ce ne sono già stati tantissimi a partire dallo scorso 14 dicembre". Fuori dalla Camera, intanto, i virtuosi della democrazia (studenti, centri sociali e Cobas) facevano sfoggio delle loro prerogative: petardi, sampietrini, bombe carte, uova marce e chi più ne ha più ne metta. Anche loro vogliono, bramano fortissimamente, la spallata. Che non arriva. E non arriverà. Al Colle - Dopo il voto, il premier è salito al Quirinale per un confronto con il presidente. Nessuno si aspetta che Napolitano scriva una nota per spiegare alle truppe cammellate dell'antiberlusconimo militante che questo governo morirà di morte naturale, plausibilmente arrivando al termine della Legislatura. Ma un intervento del Capo dello Stato per stigmatizzare il comportamento dei violenti - o anche quello del Partito democratico che abbandona l'aula, perché no - come al solito si fa attendere. All'infinito.