Da Crozza a Grillo: angoscia per il nuovo corso/Mughini
Che tra domenica e lunedì ben oltre la metà dell’elettorato italiano abbia preso la rincorsa e si sia precipitato a mollare uno sganassone in volto a Silvio Berlusconi e alla sua immagine, questo è un fatto talmente evidente. Che una porzione non esigua dell’elettorato del centro-destra sia andata a votare pur di smarcarsi dai propositi e dai suggerimenti dati dalla sua leadership, questo è un fatto talmente evidente. Che risultati e comportamenti siffatti suonino al modo di una nenia funebre per l’attuale governo, questo è un fatto talmente evidente. Tutto il resto, purtroppo per quelli di noi che vivono dolorosamente l’essere italiani, è tutto fuorché evidente. Peggio ancora: è tutto fuorché incoraggiante. Se in questa ultimissima contesa referendaria è netto il profilo di chi ha perso e il perché abbia perso, non lo è affatto il profilo di chi ha vinto e del perché abbia vinto. Ha vinto il signor “Fukushima”, ossia quel terremoto e susseguente tsunami che ha leso la centrale nucleare giapponese? Ha vinto Antonio di Pietro, l’unico leader della sinistra che fin dal primo momento ha montato a sella nuda il cavallo del referendum, o hanno vinto Pier Luigi Bersani e gli altri sommi dirigenti del Pd che avevano detto sì alla legge che ammetteva l’apporto dei privati in materia di utilizzazione della risorsa acqua, gente che domenica e lunedì ha detto no a se stessi? O invece ha vinto l’“indignazione” come che sia e quale che sia? Un apologeta del referendum ed entusiasta dei risultati referendari, Michele Ainis, ha scritto sulla prima pagina del Corriere delle Sera che il testo del referendum «dipende dal contesto» in cui è stato promosso. E fa un esempio che comprova perfettamente la sua tesi e un altro che la contraddice in pieno. È verissimo che il referendum promosso all’inizio degli anni Novanta da Mario Segni andava letto non per i suoi contenuti e bensì per quello che esprimeva, ossia un richiesta spasmodica di attenuare la partitocrazia e dunque un ricambio di una classe dirigente che da tempo immemorabile faceva il bello e il cattivo tempo in tutto ciò che era la vita del Paese. Lo diedi anch’io il mio assenso entusiasta al voto unico di preferenza com’era voluto da Segni, salvo poi rendermi conto che si trattava di una perfetta sciocchezza, che ne venivano esaltati i candidati che avevano più “faccia” perché avevano più soldi da scaraventare in campagna elettorale ed essere identificati dal grosso pubblico. Quello era dunque un cattivo referendum, perché ci invitava ad accapigliarci su una questione del tutto simbolica e onirica, ma priva di effetti concreti. Diversissimo l’altro referendum citato da Ainis nel suo articolo, quello sul divorzio. Lì si trattava di una materia concreta e reale, sperimentata come tale dai quattro milioni di italiani i cui matrimoni erano andati a rotoli e tanti dei quali avrebbero voluto costruirsi una nuova famiglia. I miei genitori avrebbero potuto essere tra loro, mia madre trentenne e mio padre cinquantenne quando la loro unione finì. Quello era il referendum perfetto, la conquista di un diritto che non ledeva in nulla quanti non lo volevano esercitare. Tanto che il risultato referendario fu il più trasversale che si potesse immaginare, altro che lo sganassone in faccia all’uno o all’altro leader politico. Torniamo all’oggi. Il commento più pungente al risultato referendario l’ho letto a pagina 48 della Stampa di ieri, nella “lettera al direttore” di Andrea Caravario. Dove il lettore del quotidiano torinese comincia a dare un nome e un cognome al «vero partito» cui la gente ha dato retta. Ossia i comici televisivi. Sono loro quelli che in materia di energia nucleare e di utilizzazione delle risorse idriche hanno dettato valori e criteri. Volete mettere Grillo, Celentano, Crozza, Littizzetto a confronto con quei poveracci di Veronesi, Margherita Hack o Rubbia? Non c’è gara. E dunque ecco 27 milioni di italiani che accorrono a dire un no alle centrali nucleari grande come come una casa e questo nell’unico Paese industrializzato in cui di centrali nucleari non c’è n’è nemmeno mezza, e laddove i nostri vicini e cugini francesi di centrali nucleari ne hanno la bellezza di 52 e ci convivono benissimo e non c’è tra loro alcun “fou” che minacci di cancellarle via. E difatti nella sua lettera il valoroso Andrea Caravario continua così: «Spero che i comici saranno in grado di farci ancora ridere quando ci renderemo conto, non essendo in grado di contare su fonti energetiche valide, di chiedere energia in prestito alla Francia nucleare o di avere una situazione idrica pari a un colabrodo vista l’inettitudine della conduzione solamente pubblica». Non so se per voi che state leggendo, quanto scrive Caravario è materia di “indignazione”. Per me sì. Come lo è leggere quello che in fatto di utilizzazione delle risorse idriche succederà nella realtà, che è cosa ben diversa dai sogni di chi ha votato “sì” al referendum. Succederà che i privati che ci avevano messo dei soldi nell’acquistare e gestire la distribuzione dell’acqua, adesso si tireranno indietro e vorranno restituti i soldi dai Comuni. Comuni che non hanno il becco di un quattrino, altro che il miliardo di euro che dovrebbero restituire ai privati cui vanno aggiunti i 60 miliardi in 30 anni necessari a risistemare al minimo la rete idrica. E dunque? Mah. Mi direte che la realtà dei fatti non importa, quello che importa è la violenza dello sganassone. Premesso che non ho nulla contro quello sganassone e le sue ragioni, mi perdonerete se non la penso affatto così. E che ai miei occhi ha scarsissima credibilità una forza politica (ma quale? ma dove? capeggiata da chi?) che si fa forte di sganassoni e non dei contenuti atti a un società industriale del terzo millennio. di Giampiero Mughini