Il legittimo impedimento? Referendum più inutile
Lo rispieghiamo per chi si fosse sintonizzato solo ora: il referendum sul legittimo impedimento (scheda verde chiaro) non serve a un accidente, è soltanto un sondaggio umorale su Berlusconi e il suo significato è soltanto politico che più politico non si può. Le firme per il referendum sono state raccolte quando la procura di Milano non aveva ancora fatto ricorso alla Corte Costituzionale, e quando la stessa Corte, soprattutto, non si era ancora espressa come ha fatto il 13 gennaio scorso: data in cui la legge, ricorderete, è stata ribaltata e quindi ri-trasformata proprio nella maniera ora auspicata dal referendum, che perciò è inutile. Chiaro? Forse troppo, al punto da sembrare persino poco credibile, semplificatorio: eppure è così. Ciò che a tutt’oggi rimane di quella legge (pochissimo, praticamente nulla) in qualsiasi caso scade a ottobre, perché sin dall’origine era previsto che fosse un provvedimento a termine: il che rende il referendum inutile due volte. Tutto questo una parte dell’opposizione lo sa benissimo, tanto che qualcuno lo ha anche ammesso: il punto è che ogni pretesto pare buono per dare un’ulteriore spallata a Berlusconi e per trovare una scorciatoia che lo faccia cadere. In questa direzione si è espresso Massimo D’Alema, che ha scambiato le elezioni amministrative per elezioni politiche e ha auspicato un nuovo governo: ovviamente «di transizione», come quello che guidò nel 1999. Così si sono espressi anche Eugenio Scalfari e Antonio Di Pietro (lo rilevava ieri Antonio Carioti) nell’auspicare «un colpo da ko» a Berlusconi per «mandare a casa l’esecutivo e andare alle elezioni»: e questo, notare, a commento di un quesito tecnico sul legittimo impedimento nei processi giudiziari. Chi si fosse sintonizzato in questo momento però merita qualche dettaglio in più. Cronologia: il 25 gennaio 2010 la Commissione giustizia licenziò la legge in questione, la Camera l’approvò il 3 febbraio successivo e il Parlamento (con l’astensione dell’Udc) la votò il 7 aprile. Le norme avevano appunto una durata di 18 mesi (il tempo di approvare una legge costituzionale che garantisse l’immunità alle alte cariche dello Stato) e prevedevano che il presidente del Consiglio dei ministri, e i ministri, potessero rinviare le udienze dei processi che li riguardavano quando ritenevano di non potervi partecipare. Era lo stesso presidente del Consiglio, o ministro, a decidere quali fossero le attività istituzionali che non potessero essere rinviate. Poi però la Procura di Milano - non un soggetto qualsiasi - ha fatto ricorso, e la sentenza della Cassazione, come detto, ha più o meno riazzerato la situazione: è soltanto il giudice - ha sancito - che può decidere se gli impegni di tizio o caio costituiscono un impedimento alla partecipazione all’udienza. Il che, beninteso, era già regolato dagli articoli 420 e 599 del Codice di procedura penale, che a margine di una giurisprudenza consolidata indicavano che dovesse essere l’imputato a fornire la prova del legittimo impedimento - sì - ma che la decisione finale spettasse al giudice. Una prassi che, dopo la decisione della Corte, ha tuttavia assunto un retrogusto politicamente disagevole: perché di fatto i giudici di Milano si sono ritrovati a sindacare sull’importanza (o meno) degli impegni istituzionali del Premier. Ora la demenzialità è questa: se vince il SI, sabato e domenica, si torna di fatto, e formalmente, a quanto stabilito dal Codice nei citati articoli, con la decisione finale che spetta al giudice; se vince il NO, invece, rimane in vigore la legge sul legittimo impedimento per come però è stata svuotata dalla Corte Costituzionale: con la decisione finale che spetta, anche qui, al giudice. Ecco perché il referendum è perlopiù simbolico dell’eventuale avversione alle leggi ad personam che sono state contestate a Berlusconi: nei suoi esiti può essere recepito come un’importante segnale della popolarità del premier, ma nel concreto non serve a niente, e non cambia niente. di Filippo Facci