Così Silvio paga due anni di Bunga Bunga Ma dov'è finita la rivoluzione liberale?
Maurizio Belpietro ha ragione quando scrive che i due sonanti ceffoni presi a Milano e a Napoli non sono ancora «la campana a morto» che accompagna il funerale politico del centro-destra. Di certo il malato, ossia il berlusconismo un tempo trionfante e che ha fatto da pivot della storia della Seconda Repubblica, sta male assai. Ha la febbre alta. Talvolta perde conoscenza e smania. Ha comunque bisogno di dosi massicce di medicine se vuole rimettersi in piedi e primeggiare nel ring della politica. E poi non è vero che il voto di fine maggio era meramente amministrativo, che riguardava l’Expo di Milano e la traboccante monnezza di Napoli. A Milano soprattutto il voto è stato un referendum pro o contro Berlusconi. A lui, esattamente a lui, era rivolto il ceffone. La prima volta nella storia della Seconda Repubblica che il capoluogo lombardo, la Milano dove sono accampati gli studi Mediaset e le villette di Milano Due e la bacheca dei trionfi del Milan Football Club, dice di no al centro-destra di cui Silvio Berlusconi è il simbolo. Una coalizione i cui temi elettorali portanti hanno fatto fiasco. Micidiale la compiacenza di tanti del centro-destra nei confronti del cialtronesco manifesto affisso sulle mura di Milano dov’era insinuato un paragone osceno tra i magistrati della procura milanese e le br. Suicida la spacconata di connotare come "senza cervello" quelli che avevano votato al primo turno per Giuliano Pisapia, e che anzi da quell’insulto ne sono stati aizzatissimi a farlo al secondo turno. Zero tondo quanto ad efficacia elettorale la campagna contro l’eventuale moschea milanese che forse farà costruire Pisapia, e come se a Roma non ci fosse già una grande moschea che non ha mai creato il minimo problema, e come se non fosse la cosa più naturale del mondo che ciascuno dei 100mila musulmani che vivono e lavorano a Milano abbia il diritto di pregare il Dio in cui crede nel luogo a ciò destinato. Un autogol da centrocampo quello di una donna solitamente misurata e avveduta, Letizia Moratti, che non si affretta a fare le scuse le più solenni a Pisapia dopo avergli rimproverato in una sfida televisiva una cosa assolutamente non vera. E poi, ma davvero credevate che uno o due anni di bunga-bunga vero o verosimile, di sgualdrinelle in prima pagina, di carriere politiche femminili fatte a colpi di curve ben modellate dal silicone - tutta roba beninteso che non so affatto se configuri un qualche reato personale, ma che di certo configura il reato di cattivo gusto e di sbraco - non avrebbe spostato nemmeno un voto rispetto ai punteggi elettorali del 2008, quando la coalizione di centro-destra mise ko l’avversario? Solo che fin qui, non sono andato oltre quello che pensano molti degli stessi elettori del centro-destra (ciò che io non sono), abbiano poi deciso di votare o no a Milano o altrove. Il punto è più alto e più grave, ed è un punto grave per la nostra democrazia e tanto più se si pensa alla fisionomia delle sinistre che sono risultante vincenti in questa recente consultazione elettorale. Non c’è democrazia lì dove non c’è un confronto leale e sui contenuti tra le due opposte parti in campo, e maledetto sia il bipartitismo all’italiana e chi ha creduto di inventarlo. Se questo confronto si riduce al fatto che il nostro capo del governo acciuffa l’attimo fuggente per andare a bisbigliare all’orecchio del presidente degli United States of America che in Italia c’è una "dittatura" dei magistrati di sinistra e che lui li concerà per le feste, allora siamo alla frutta. Traduco: è alla frutta uno schieramento politico che impegna 24 ore su 24 del suo tempo a difendere Berlusconi "dai" processi, i 324 deputati che hanno giurato sul loro onore che quella fanciullona volgare e traboccante lui davvero l’aveva creduta quale una nipote di Mubarak. 24 ore su 24, a questo s’era ridotta l’attività e la presenza di una maggioranza parlamentare che era stata una delle più formidabili nella storia parlamentare italiana. A questo, soltanto a questo. E mentre di quella famosa rivoluzione liberale annunciata nel 1994 non c’era più briciola o parvenza nei fatti della nostra politica, se non forse nella legge di riforma universitaria che porta il nome del ministro Gelmini. Una riforma contro cui da sinistra si sono scagliati con una cecità da far paura. En attendant la rivoluzione liberale, a questo siamo ridotti moltissimi di noi - borghesi, moderati, filoccidentali, libertari, gente che se ne strainfischia e ci si pulisce le scarpe con le tradizionali partizioni sinistra/destra. Mi direte, e avete ragione, che con una crisi economica talmente devastante altro che rivoluzione liberale. È già tanto sopravvivere, che sopravvivano le famiglie, i comuni, gli ospedali, le università, i servizi pubblici. Lo so benissimo. Solo che torniamo al punto dolente, e cioè che moschee e magistrati di sinistra non c’entrano nulla col gran casino in cui ci troviamo. E che a questo punto dei ponti tra i due schieramenti vanno costruiti, dei temi che siano comuni e possibili, delle occasioni costruttive, degli appuntamenti a fare e non a dilaniarsi. Ciò che dopo il voto di fine maggio appare quanto di più lontano. Perché a sinistra prevalgono in questo momento le voci più radicali, gli schiamazzi i più retorici. Lunedì nel tardo pomeriggio, e mentre per le strade romane già cominciavano ad esultare i militanti di sinistra, sono uscito dallo studio del mio commercialista dove per quattro ore avevamo contato a uno gli euro che ho versato e che dovrò versare per l’anno fiscale 2010. Un calcolo allucinante, da smettere di lavorare e tirarsi un colpo di rivoltella alla tempia. E mentre per strada quei ragazzi entusiasti sognavano redditi migliori, pensioni più alte, assunzioni a pioggia di precari, scuole aperte a tutti 24 ore su 24. Il mondo dei sogni. Quello che ha dato un cazzotto al mondo del bunga-bunga e lo ha steso. Ahinoi, che cosa ci aspetta. di Giampiero Mughini