Sei italiani feriti in Libano: a che serve la missione voluta da Prodi?
Primavera araba? Fateci il piacere, chiedetelo ai nostri militari in missione senza un chiaro progetto in Afghanistan, a quelli per fortuna solo feriti ieri in Libano. La verità è che la politica estera europea e americana non sono mai state così prive di senso, che l’Afghanistan ristagna, la Libia scambiata per rivolta di popolo contro Gheddafi resiste, ci prepariamo a riempire di quattrini l’Egitto senza nessuna garanzia di non ritrovarci un secondo Iran, la stessa cosa vale per la confusa situazione in Tunisia, anche se meno segnata dal controllo nefasto dei Fratelli Musulmani;stiamo zitti, inermi, di fronte alla strage di popolo in Siria. Le missioni italiane, dunque, vanno riviste e correte profondamente, senza aspettare il prossimo attentato e il morto vero, non è questione di quante missioni abbiamo e di quanto costano, anche se vite umane e costi in tempo di crisi qualcosa dovrebbero contare, ma di sapere a che cosa servono. “Proporrò, al prossimo Consiglio dei Ministri, il ritiro delle nostre truppe dal Libano, per reperire mezzi e risorse”, dichiarava alcune settimane fa il Ministro leghista Roberto Calderoli. Il Ministro della Difesa Ignazio La Russa ha allora dichiarato che “è prevista una progressiva diminuzione delle nostre truppe in Kosovo e in Libano”, aggiungendo che “è corretto immaginare di portare i nostri uomini intorno alle 1.000 unità”. Dal punto di vista politico, però la politica estera italiana si fa con le Forze Armate. L’esempio eclatante è proprio il Libano. UNIFIL (United Nations Interim Force in Lebanon), Forza di Interposizione in Libano delle Nazioni Unite, creata il 19 marzo del 1978 con le risoluzioni 425 e 426 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, fu ampliata e rafforzata nel 2006 con la risoluzione 1701. La missione italiana in Libano è stata infatti cinque anni fa il fiore all’occhiello della politica estera di Massimo D’Alema e del governo Prodi. Con il pretesto della reazione "sproporzionata" di Gerusalemme agli attacchi di Hezbollah, si era presentata finalmente l’occasione di dare un segno di "discontinuità "con Berlusconi e il ministro ne aveva approfittato D’accordo col Presidente del Consiglio, Romano Prodi, si era fatto promotore del potenziamento della forza d’interposizione Unifil in Libano, offrendo il contingente più numeroso (3 mila soldati) e richiedendone il comando. In questo modo, ha preso il via l’operazione Leonte, la più costosa della storia italiana: 600 milioni di euro all’anno, 100 in più di Antica Babilonia in Iraq e oltre il doppio dello stanziamento destinato all’Afghanistan. Scopo dichiarato dell’iniziativa il rilancio del ruolo dell’Europa e delle Nazioni Unite quali garanti della sicurezza in Medio Oriente. Nell’ottica dalemiana, grazie al "cessate il fuoco tra le parti internazionalmente garantito, è stato possibile separare le dinamiche interne libanesi dal fronte esterno di una guerra con Israele". Peccato che gli amici di Hezbollah, amici di D’Alema, se ne siano infischiati delle garanzie internazionali e abbiano usato il cessate il fuoco come una tregua di cui approfittare per riorganizzarsi, con la protezione dalle possibili incursioni israeliane, non prendendo in considerazione nemmeno per un momento l’idea del disarmo, anzi ponendola come condizione ufficiosa. E oggi? UNIFIL ha il compito di sostenere l’Esercito libanese nel disarmo di tutte le milizie illegali presenti in Libano, comprese quelle di Hezbollah. Ci riesce nella nuova situazione tanto radicalizzata? No, anzi è l’esempio di un fallimento più generale, tra troppi pochi soldi stanziati e regole di ingaggio grottesche, tra politica ondivaga europea verso Israele e il mondo arabo. Se il fine politico non è chiaro, se i mezzi sono inadeguati, allora contano le cifre dell perdite, e sono brutte. In vent’anni di inconcludenti missioni all’estero abbiamo accumulato 116 caduti militari, Pochi, a paragone dei 5.888 americani caduti in dieci anni solo in Iraq e Afghanistan, dei 542 inglesi e dei 154 canadesi: ma i nostri 70 solo in queste missioni sono al quarto posto, prima dei 53 francesi, 52 tedeschi, 48 polacchi, 47 danesi e 42 spagnoli. Senza contare i giornalisti e i cooperanti, i 181 militari e civili reduci dalle aree in cui sono state usate armi con uranio impoverito e deceduti negli anni seguenti per tumori. di Maria Giovanna Maglie