E' un'elezione, non una guerra: "pietà per i prigionieri"
Un ex Marine che ha combattuto in Vietnam e che da anni è un lodato autore di libri sulle dolorose guerre americane in Afghanistan e in Irak, Bingo West, segue spesso le truppe di prima linea per capire e raccontare meglio quel che succede sul campo di battaglia. C’era anche lui (un paio d’anni fa) al seguito di un plotone americano che stava avanzando nella provincia afgana dello Helmand, quella che quanto a presenza dei Talebani in armi è la più rognosa di tutte. A un certo punto dell’avanzata i soldati americani sono bloccati dal fuoco di un paio di cecchini e di una mitragliatrice pesante appostati dentro una moschea. I soldati non possono avanzare. Né chiedere il tiro dell’artiglieria o il bombardamento dall’alto dei droni senza pilota, un fuoco che spazzerebbe via la moschea e renderebbe ancora più difficile il rapporto con le tribù locali di fede musulmana. Maledetta guerra in Afghanistan, la “guerra sbagliata” come la connota West. Solo che per nostra fortuna non sta nello Helmand né Milano né nessun’altra città d’Italia dove domenica prossima andranno al ballottaggio i candidati sindaco delle avverse coalizioni. Voglio dire che in nessuna città d’Italia domenica prossima succederà come alla conclusione di una battaglia campale, quando i vincitori hanno i fucili spianati e i vinti alzano le mani nel segno della resa. I vincitori e i vinti di un’elezione democratica sono tutt’altra cosa che in una battaglia con i morti e i feriti, e anche se in questa campagna elettorale da una parte e dall’altra non s’è scherzato quanto a contumelie lanciate in faccia all’avversario a conciarlo per le feste. Per restare alla metafora della moschea da cui sono partito, se dovesse vincere Giuliano Pisapia, e davvero fosse costruita a Milano la moschea talmente invisa a una parte dell’elettorato di centro-destra, non è che per le strade e nelle piazze milanesi ci saranno cecchini con il turbante a difenderla e valorosi Marines capeggiati dalla nostra amica Maria Giovanna Maglie ad attaccarla. La vita di tutti i giorni continuerà invece come prima, e a meno che non entri in campo qualche farabutto musulmano di quelli da prendere per la collottola e sbattere nelle patrie galere o rispedire a calci in culo nel paese di origine. Salvo incidenti e farabutti sarà una tranquilla vita di tutti i giorni, come già avviene nella milanesissima Segrate dove sono accampate nientemeno che la Mondadori e Mediaset e dove c’è anche una moschea con tanto di minareto. E nessun abitante di Segrate se ne turba e conturba. Chi ha alzato e di molto i toni in campagna elettorale dovrà smorzarli a seggi chiusi e schede contate. Tanto quelli che 24 ore su 24 denunciano il tanfo del berlusconismo comatoso, tanto quelli che nel 48 per cento di elettori milanesi che hanno votato per Pisapia intravedono un bel po’ di comunisti duri e puri e minacciosi se non anche qualche ex brigatista. Gli uni e gli altri dovranno fare uno sforzo a capire che in democrazia non c’è una linea divisoria che spacca in due la società, da una parte quelli che hanno votato Bianco e dall’altra parte quelli che hanno votato Nero. A differenza che dopo una guerra, dopo un’elezione non ci sono campi di concentramento dove rinchiudere e umiliare i soldati dell’esercito disfatto. L’Expo del 2015 che si farà in ogni caso - e che è merito di Letizia Moratti averlo voluto e averci creduto - è un’intrapresa che riguarda tutti i milanesi, stavo per dire tutti gli italiani. Se aumentare da qualche parte e per qualche voce il prelievo fiscale, in modo da evitare che il rosso dei nostri conti pubblici peggiori ulteriormente e diventi una voragine che ci escluderà dal giro dei nostri partner europei, è una domanda che ogni italiano responsabile non può non porsi e alla quale deve rispondere lealmente. Nessun italiano che si vuole responsabile del destino del suo Paese e dei suoi figli - sia esso un cattolico, o un ex di Rifondazione comunista, o un ex Psi, o un berlusconiano o un anti-berlusconiano - può far finta che non sia cosa che lo riguardi quella cifra di 46 miliardi di euro, tanti quanti ne indica la Corte dei Conti come indispensabili a correggere il passivo dei nostri conti nei due o tre anni che ci aspettano. Le contumelie della campagna elettorale durano un istante, il tempo di un comizio o al massimo la durata di una trasmissione televisiva di prima o seconda serata. E invece resta e dura il cemento delle cifre del dare e dell’avere, cifre che per l’Italia sono talmente allarmanti che quanto a solidità economica il profilo del nostro Paese è stato declassato alla serie B se non alla serie C. Altro che vincitori entusiasti e vinti che sono stati sopraffatti e che alzano le mani. Il pericolo è che l’Italia in quanto tale alzi le mani e vada cancellandosi come paese industriale moderno. di Giampiero Mughini