Bossi: "Fermi tutti, si rimanda la resa dei conti col Pdl'
Aria di tempesta in via Bellerio, nel quartier generale della Lega. Ieri i colonnelli hanno disertato la sala stampa. Eppure erano tutti lì, esattamente come l’altro giorno, chiusi nell’ufficio di Umberto Bossi per studiare percentuali e strategie. «Non me l’aspettavo» ha ammesso il Senatur coi suoi. «Ora pensiamo ai ballottaggi e cerchiamo di vincere dove si può». Gelo col premier: si vocifera di un incontro fissato per oggi, ma tra i lumbard c’è chi spiega che «non è aria» di faccia a faccia. Nella stanza del leader, quasi ammutolito dai risultati, si elencano gli errori del Pdl che per gli alleati sembrano non finire mai. I leghisti cominciano con la scelta di ricandidare Letizia Moratti, che non ha mai convinto fino in fondo Bossi, e vanno avanti con i manifesti anti-pm di Roberto Lassini, con la gestione della guerra in Libia, con le dichiarazioni del premier sul referendum sul nucleare e la giustizia. Uscite che i padani non hanno gradito, anche se una flessione dei consensi (considerate le difficoltà internazionali come la grana-immigrati) poteva essere preventivata. Ma qui si parla di patatrac. Certo, la colonna del Carroccio a Milano Matteo Salvini continua a dirlo: credo nella rimonta al ballottaggio. Ma sono passate già 48 ore e né Bossi né Berlusconi hanno dato l’idea di voler recuperare. E, a dirla tutta, molti in via Bellerio danno per scontato il ko. Il timore è quello di un effetto domino che potrebbe sbriciolare gli equilibri al governo. Ieri Umberto ha chiesto ai suoi di limitare le dichiarazioni: la sala stampa, anche nei momenti più bui, non è mai stata così disertata dai dirigenti. Da qui al secondo turno non accadranno terremoti, anche se il centrodestra ha bisogno - come minimo - di un bel tagliando. E la base dei duri e puri, quelli che telefonano a Radio Padania, è imbufalita. E chiede di mollare il Cavaliere. Pure Giancarlo Gentilini, uno dei simboli del Carroccio nella roccaforte di Treviso, invoca un cambio di rotta. Il ministro del Federalismo è però convinto che la palla sia nel campo del premier. Al momento non vuole mollarlo, se non altro per mancanza di alternative credibili. Per i lumbard è Berlusconi che deve indicare una via d’uscita. E non è un caso se le uniche dichiarazioni di ieri, firmate Roberto Calderoli, siano state dettate al telefono pur di non presentarsi davanti a taccuini e telecamere: «Noi non ascoltiamo le sirene dell’ultimo momento» fa sapere per respingere le offerte di dialogo del Pd «non caschiamo in giochini di seduzione, la Lega sta con chi le riforme le vuole davvero e può realizzarle». E poi: «La Lega, tutta la Lega, è impegnata per vincere i ballottaggi e ce la metteremo tutta per vincerli». Frasi al miele che però non riescono a nascondere un disagio crescente. Va bene accelerare sul programma, a Roma, e tornare a parlare di problemi concreti, a Milano e nelle altre città dei ballottaggi: l’hanno invocato alcuni leghisti lunedì notte. Però l’emorragia di consensi getta ombre preoccupanti anche sul destino delle riforme, soprattutto quando il decentramento andrà accompagnato da una diversa ripartizione dei quattrini tra gli enti locali. L’esecutivo avrà la forza per tirare dritto? Poi c’è un altro problema, offuscato dalla crisi di Berlusconi: contando i voti della Lega, si segnala una erosione di consenso nel profondo Nord, parzialmente compensato da un’avanzata sotto il Po, nelle roccaforti di sinistra. A Bologna, per esempio, per la prima volta il Senatur è andato in doppia cifra. Bossi, con poca voglia di parlare, tracanna Coca Cola e succhia sigari. Probabilmente è la fine di una fase storica. La domanda dei lumbard è sempre quella: se si molla Berlusconi, poi che si fa? Davvero si può aprire al Pd? Umberto sta cercando una risposta. Riuscisse a trovarla, non la annuncerà di sicuro prima dei ballottaggi. di Matteo Pandini