In libreria il graffio (e le battute) del signor Gaber
Da oggi, il graffio di Giorgio Gaber torna in libreria, con le sue battute, gli aforismi, le sue domande urticanti. Un viaggio attraverso il pensiero che fotografa l’Italia di ieri e anticipa quella di oggi. «Questo è il senso del mio nuovo libro», dichiara a Libero il fotografo e critico Guido Harari, autore del volume edito da Chiarelettere “Quando parla Gaber”. «Sono partito dalla mia precedente fatica editoriale “L’illogica utopia”, un lavoro certosino, una sorta di autobiografia di Gaber che ho potuto ricostruire attraverso lo sterminato materiale messo a disposizione dall’archivio della Fondazione intitolata all’artista. “Quando parla Gaber” è una sorta di compendio fatto di mille citazioni del grande interprete del Teatro Canzone e del suo inseparabile autore Luporini. Ho diviso il volume in temi portanti: dalla politica allo Stato, dalla cultura alla televisione, dal declino del pensiero e delle coscienze, alla dittatura del mercato, tanto per citare i principali». Rileggendone alcuni passi, si ha la netta impressione di come Gaber sapesse anticipare il tempo, i tempi della nostra civiltà, verso la quale già allora lui urlava tutto il suo dissenso. La sinistra lo accusava di qualunquismo. «Già, per lui il qualunquismo era l’indifferenza», sottolinea Harari. «Era il rifiuto della partecipazione. Gaber era di sinistra, ma non della sinistra, nessuno sapeva meglio di lui leggere tra le righe dell’impoverimento ideologico dei cosiddetti democratici». C’è anche una visione primordiale della Lega. «C’è stato un momento in cui Raboni accusò Gaber di “leghismo estetico”. Gaber rispondeva che era stupido barricarsi dietro questioni di principio. Bisognava prendere coscienza della forza della Lega che aveva dato uno scossone alla staticità dei partiti, chiusi, mai propositivi. Anni dopo pensava che la Lega si era messa al centro di quella macchina contro cui si era schierata...». Gaber era un cane sciolto, non gli si può ascrivere nessun pensiero politico. Il PSI di Craxi voleva che “La libertà” diventasse l’inno del suo partito e Gaber si era sempre rifiutato. «Lui diceva no a qualsiasi etichetta ideologica», aggiunge Harari, «si sentiva un cane sciolto. Diceva: siamo il terzo partito d’Italia. E ripeteva: la libertà fa malissimo. Cercarla, fa bene». Si definiva filosofo ignorante, ma aveva un’idea precisa dello Stato e della politica. «Per lui il rapporto era: buttiamo lì qualcosa, qualcosa di costruttivo. Offriamola e andiamocene, senza aspettare di godere della gratitudine o del ritorno di potere». E la cultura di cui la sinistra si è sempre fatta fregio? «C’è un aforisma di Gaber che dice tutto: ne ha ammazzati più la cultura che la bomba atomica», risponde Harari. «Pensava che la cultura dovesse essere circondata dal silenzio, odiava il falso senso democratico della cultura di massa, secondo la quale tutti possono dire la loro». C’è il Gaber anche più vicino a noi, il computer, la televisione. «Ricordo un incontro alla Bocconi. Gaber disse: i giovani hanno perso il gusto della partecipazione. Oggi…chattano. Della televisione: la accendiamo un attimo prima di suicidarci. Diffonde immagini sovraccariche di nulla. Guardate le donne. In tv, sono portatrici di tette... Della famiglia, pensava che si edificasse sulla fedeltà, l’unica vera trasgressione». E della fede? «Ricordo il Meeting di CL del 1985. Gaber cita Don Giussani: la fede è come una ferita che rimane aperta…». Sino alle ultime battute della sua cavalcata nel Teatro Canzone. «Cantava la sconfitta del pensiero sovrastato dalla stupidità dilagante che fa più danni più della dittatura militare. Ma di quest’ultima se ne conoscono i danni della stupidità dilagante ancora no. O forse, sì». E del mercato? «Una dittatura anch’essa perché non se ne può più fare a meno. Basta essere dei compratori per mettere un argine alla disumanizzazione». Che cosa rimane di una lettura così? «La convinzione che non si può che essere schierati dalla parte del Signor G», conclude Harari. di Fabio Santini