Le confessioni di Lassini "Piangevo, Silvio ha detto: sono con te"
«Fosse stato per me, non mi sarei dimesso da niente. Questa è tutta una pagliacciata. Il Parlamento è pieno di ladri, che cazzo vogliono da me?». Nero, è nero Roberto Lassini, come una pantera. Non si dà pace per essersi dovuto ritirare dalla corsa delle Comunali di Milano su diktat del sindaco Letizia Moratti, a causa dei manifesti anti-pm con cui ha tappezzato la città. Ma non sfugge il guizzo furbo dietro il suo sguardo torvo: la consapevolezza che la iattura potrebbe diventare una fucina di voti. Tanto che ora nel PdL molti sono pronti a scommettere che il candidato consigliere dimissionario farà il botto alla Amministrative. Sbaglia quindi chi dà per spacciato l’ex sindaco Dc di Turbigo. Il quale avrà pure mandato al macero i suoi santini e chiuso il comitato elettorale, ma può contare su uno spin doctor che lo marca a uomo: Tiziana Maiolo. Dopo essere passata in Fli, l’ex radicale è tornata nell’alveo berlusconiano. Soprattutto, Lassini sa di avere uno sponsor, neanche troppo occulto, in Silvio Berlusconi. Come diavolo le è venuta l’idea dei manifesti «via le Br dalle procure»? «L’idea non è mia, ma della mia associazione». Vuole far credere che i suoi prendono un’iniziativa così senza consultarla? «Non avevo neanche visto il bozzetto». Sincero: lei non condivide nel merito quello slogan? «Ho chiesto scusa per quei manifesti perché sono indifendibili, ma ritengo che Berlusconi faccia bene ad alzare la voce contro certa magistratura». Che idea della magistratura ha lei che fu imputato di tentata concussione dalla procura di Milano nel ’93 e si fece 42 giorni a San Vittore? «Da quell’accusa io fui assolto con formula piena cinque anni e mezzo dopo, quindi ho fiducia nella magistratura, anche in quella milanese. Certo, la rabbia è tanta e a volte faccio fatica a contenerla». Lei pensa che certi pm siano come i brigatisti? «No, ma il premier è sicuramente un perseguitato e c’è un disegno eversivo contro di lui che va anche oltre le procure. Si è gridato allo scandalo su quei manifesti, ma quando il professor Asor Rosa dice “commissariamo il Parlamento e mandiamo i carabinieri”, cos’è quella, se non istigazione a delinquere?». Questo ragionamento è suo o del Cav? È noto che vi siate sentiti al telefono… «Lui mi ha telefonato per esprimermi la sua solidarietà. Io ero molto emozionano e commosso. Ho pianto come un vitello al telefono con il presidente e un po’ me ne vergognavo». Ma lui cosa le ha detto? «Ha cercato di consolarmi assicurandomi che mi capiva sino in fondo e che mi era vicino. Non mi ha detto “Roberto hai sbagliato”. Anzi, si è sfogato a sua volta dicendomi di ritenersi un perseguitato dalle toghe e mi ha convinto ancora di più della necessità di riformare la giustizia». Lei inzialmente non voleva saperne di ritirarsi. È stato Berlusconi a convincerla? «Mi ha detto che gli dispiaceva molto che io dovessi dimettermi e che se fosse stato per lui non mi avrebbe mai fatto ritirare. Ma il problema per il premier è molto più ampio». Il «problema» si chiama per caso Letizia Moratti? «Le basti sapere che la telefonata di Berlusconi è avvenuta il giorno in cui il sindaco di Milano ha posto il veto sulla mia candidatura in termini assolutamente irritrattabili. Era implicito che, seppure malvolentieri, Berlusconi mi dicesse: “Roberto, föra di ball”». La legge prevede che lei possa ritirarsi dalle elezioni ma non cancellarsi dalla lista, quindi i milanesi possono votarla. «Sì, ma le mie dimissioni sono state formalizzate, non faccio più campagna elettorale. Sono rimasti solo un po’ di santini in questa stanzetta offertami in comodato d’uso da un collega, perché il mio studio legale è a Busto Arstizio». Se sarà eletto cosa farà, rinuncerà all’incarico di consigliere comunale? «Deciderò in base ai risultati». Ma non può prescindere dal veto della Moratti. «Non posso negare che mi sia dispiaciuta molto la sua reazione». E che effetto le ha fatto il monito di Giorgio Napolitano che ha definito i manifesti «un’intollerabile offesa alla memoria di tutte le vittime del Br»? «Tremendo. Mio padre di 81 anni piangeva. A casa mia è ancora vivo il ricordo di quando mi portarono a San Vittore. L’altro ieri mi ha scritto il parroco di Turbigo, che mi difese a messa all’indomani dell’arresto». Cosa le è rimasto più impresso di quel giorno? «Il momento in cui i carabinieri vennero a prendermi a casa all’alba con tre camionette, un’azione da Gestapo. Io li feci entrare, salutai mia moglie: “Ciao amore, ci rivediamo tra sei mesi”. E a loro dissi: “Fate in fretta la perquisizione e non rompete i coglioni”, perché avevo una bambina di tre mesi e un’altra di diciotto. “Se le svegliate”, li avvertii, “non rispondo delle mie azioni”. Mi fecero uscire nella piazza di Turbigo, salimmo in Comune e perquisirono anche lì». La imbarazzò da sindaco farsi vedere in giro in manette? «Ma no, è giusto così. Quando fai l’avvocato è bene che assaggi gli schiavettoni almeno una volta nella vita, così sai cosa provano i tuoi clienti. C’è stato un periodo, nel ’94, in cui andavo in tribunale da avvocato e da imputato. Quando avevo udienza mi mettevo la toga e quando andavo al mio processo, me la toglievo. Ma i magistrati avevano capito chi ero. Tra questi c’era Romeo Simi De Burgis, che una volta bevve un caffè con me e mi disse: “Anch’io sono stato in galera, Lassini, e un po’ di carcere, a dosi omeopatiche, farebbe bene anche ai miei colleghi per essere più attenti quando adottano provvedimenti restrittivi». Cosa ricorda del soggiorno a San Vittore? «Tenevo un diario dal carcere scrivendo tutti i giorni a mia moglie circa sei, sette fogli. Il momento più traumatico è l’arrivo in carcere, quando ti prendono le impronte e ti perquisiscono anche nell’intimità. Non solo in senso fisico, di quello puoi anche fottertene. Quella che ti fa più male è la perquisizione psicologica». Il suo giorno peggiore da galeotto? «Fu quando si suicidò Gabriele Cagliari, che era al quinto raggio, come me. In carcere scoppiò la rivolta: bruciavano i materassi, scuotevano le sbarre, buttavano le bombolette del gas che usavano per cucinare in cella, con l’obiettivo di far saltare in aria qualche testa di cazzo di maresciallo che li angustiava. Fummo lasciati soli dai secondini tutta la notte. Ma nei giorni successivi i controlli triplicarono e fummo trattati ancora peggio, soprattutto io». Perché soprattutto lei? «Perché noi tangentopolini eravamo considerati a rischio suicidio, quindi ci controllavano sempre e dappertutto. “Neanche dentro al cesso possiedo un mio momento”, cantava Guccini. Eravamo obbligati a lasciare aperta pure la feritoia del bagno, quindi io ero odiatissimo dai miei compagni di cella. Perciò, come atto estremo di ribellione, la richiusi assieme a un tizio tostissimo di Limbiate che si fece otto anni per sei etti di eroina, povero Cristo, e poi divenne mio cliente quando uscii di galera». E come fece a chiudere la feritoia? «Con un pezzo di gommapiuma. Per depistare il secondino che iniziava a insospettirsi perché non uscivo più dal bagno, i miei compagni gli dissero “Agente, gli presti la mano al sindaco del quinto raggio”: le lascio immaginare cosa succede nei bagni del carcere dove c’è una montagna così di riviste pornografiche». Un modo come un altro per ammazzare il tempo. Lei cosa leggeva? «Freud, Nietzsche e il codice di procedura penale. Anche perché a San Vittore non c’è neanche una biblioteca. Non parliamo poi delle disparità di trattamento. Non ho mai capito perché io e Cagliari eravamo chiusi al quinto braccio con i detenuti comuni, mentre Franco Nobili era al sesto, dove gli consentivano di stare con la porta aperta. Io uscivo all’aria solo tre quarti d’ora al mattino e al pomeriggio». Cosa faceva in quei tre quarti d’ora? «Correvo tutti i giorni, sono un ex maratoneta. Ma il cortile di San Vittore è un catino di cemento dove diventi pazzo. Un giro completo è di cento metri, io facevo cento giri per fare dieci chilometri e pompavo con le flessioni. Ero rasato come un naziskin». Quando fu assolto in lei c’era più soddisfazione o rabbia? «Entrambe. Devo molto al mio legale, Mauro Bonini, un collega bravissimo, che ha dato l’anima. Ma se fosse stata un po’ più accorta, la procura avrebbe sgonfiato il mio caso in dieci giorni». È per la sua vicenda giudiziaria che lei ce l’ha ancora tanto con i pm? «Io non odio Bianca Margherita Taddei, pubblico ministero al mio processo e oggi giudice alla seconda sezione penale della Cassazione. Però si incaponì troppo. E mi spiacque molto che dopo quasi sei anni di processo, letto il dispositivo di assoluzione piena, lei si girò verso i miei avvocati e disse: “Siete stati convincenti”. Lì capii qual è il limite di certi pm: la testardaggine». Molti sono convinti che ci sia la regia di Berlusconi dietro quei manifesti. «Non si pensa mai che i pazzi in giro ci sono davvero e che se si incazzano fanno le cose spontaneamente». Sta dicendo che lei è pazzo? «Sì, sono un pazzo incazzato». intervista di Barbara Romano