Viaggio a Zarzis, porta della Tunisia: dove provano a fermare i clandestini

Giulio Bucchi

«Zarzis 2011, la Tunisia ai tempi della rivoluzione: da qui si parte, da qui si esce». Un  paesone che è una lunga striscia di case sdraiata sulla battigia, la parte vera ben distante da quella turistica tutta albergoni uno dopo l’altro, mezz’ora di macchina in su e  sei a Djerba (quella del Club Mediterranée), mezz’ora in giù e sbatti sul confine con la Libia (quello dei campi profughi), e figurati che con 240 chilometri arrivi a Tripoli. Dice: ma tu che sei lì almeno rendimi l’atmosfera. E allora ecco, adesso c’è il sole impallidito dalla sabbia che ti tramonta dietro le spalle, rivolto al deserto, oltre le case bianche e le imposte azzurre e le voci megafoniche dei muezzin in questo giorno di preghiera. Mentre tu cammini in direzione opposta, sulla principale strada trafficata e polverosa per via del vento che non t’aspettavi - e adesso rinfresca, ma solo qualche ora fa era invece un alito insopportabilmente caldo, le strade affollate di mercato d’improvviso deserte, e tutti a ripararsi in casa. E comunque incroci tuniche e veli e carnagioni bruciate nient’affatto ostili, passo dopo passo percorri la strada e sbuchi sulla piazza - che poi è una rotonda stradale - sulla quale s’affaccia il bar dei trafficanti, quelli che organizzano le traversate, in genere se ne stanno qui, seduti ai tavolini ad aspettar clienti - tanto non c’è bisogno di chiedere, vengono loro. Con te che ostenti un’indifferenza troppo smaccata per essere vera - dall’ambasciata si erano raccomandati, «niente macchine fotografiche o videocamere che in questo periodo non è cosa», ma così perdi definitivamente la già remota possibilità di sembrare un turista, e questo è un peccato. E a un certo punto ti vien da sorridere pensando che certo sei tu che esageri a farti il film, a immaginarti nel gioco del giornalista al centro del pericolo. Poi ti ricordi di quel che t’aveva detto il collega, lui che in questi mesi la Tunisia l’ha girata in lungo e in largo, «l’aria lì a Zarzis è cambiata, fa’ attenzione», così aveva detto. E in realtà Mouldí s’era mostrato più tranquillo, spiegando che sì, vero, l’atmosfera è di molto più nervosa «ma basta non andare in giro a far troppe domande», solo che ci fermiamo a parlare col suo amico Aladdin e a noi scappa proprio quella parola, «trafficanti», e lui ci guarda con espressione immediatamente comprensibile, «…ma che dici?...», e insomma, l’impressione è che tutti controllino tutti. No, altro che gioco, di questi tempi qui proprio non si gioca. Gente pronta a vendersi tutto per attraversare il mare e magari spiaggiare su una speranza, altri che su questa speranza vogliono guadagnarci tanto e veloce, e guai a mettersi di mezzo. Adesso ancor di più, ché da qualche giorno è più difficile partire, l’accordo con l’Italia ha costretto l’ancora gracile nuovo corso tunisino a gonfiare il petto, la Guardia Costiera ha da salvare perlomeno le apparenze, non si gira più dall’altra parte e in effetti la presenza è evidente - intorno alla città più che dei posti di blocco sono check-point. E tutti si sorprendono alla notizia della barca arrivata a Lampedusa l’altra notte, «sarà partita da più in su», d’altronde erano sei giorni che non si segnalavano barconi in partenza. E in ogni caso se i giornalisti prima erano tollerati, prima quando le guardie preferivano la stecca alla magra paga statale, adesso no, adesso quelli che scrivono possono diventare un problema. Anzi, già lo sono diventati, proprio Mouldí accompagnava l’inviato del Corriere quando c’è stato lo scontro, una settimana fa, e proprio lui s’è preso la scoppola, «guarda qui, sono ancora gonfio», poi ride. «La plage, c’est celle là», la spiaggia è quella lì, e il tipo indica verso nord, proprio nei pressi degli hotel. La risaliamo e ci sono questi piccoli golfetti, sorta di approdo naturale, barchette a strisce rosse e bianche e blu tirate in secca, «è da qui che partono». Fino a qualche giorno fa - così ci racconta - fino a qualche giorno fa, all’ora stabilita, decine e decine di persone sistemate a dormire magari per giorni in appartamenti e case vuote e magazzini si trovavano a camminare sulla sabbia verso il mare - t’immagini la scena e vengono in mente quei documentari sulle piccole tartarughe uscite dall’uovo, quelle che corrono verso l’acqua prima che arrivi il gabbiano a mangiarsele. Salivano su queste piccole imbarcazioni a remi, che li portavano al largo fino a quella più grande. Incontriamo Farhad faccia-di-cuoio in una delle tante case in costruzione che s’affacciano sulla spiaggia. Lui è «pêcheur», è pescatore - e qui a Zarzis sono due le categorie che sanno tutto di tutti, i tassisti e i pescatori. E comunque ci conferma che «no, sono giorni che da qui non si parte. Le barche sono finite, i clienti anche». Ma qualche rimpatriato è tornato qui per ritentarci? «No, proprio non mi sembra». Poi ci indica una barca bianca ormeggiata al largo, «ecco, la vedi? Con quella hanno tentato la traversata, ma la Guardia Costiera li ha fermati, volevano sequestrarla. E si sono rivoltati in tanti, a decine, tanto che hanno dovuto restituirla ai proprietari». E spiegano, lui e Mouldí, di come questi passeurs non siano in realtà malavitosi di professione, comunque non tutti, «magari nel resto dell’anno vendono l’olio o hanno un’altra attività. Solo che s’è presentata l’occasione per questo affare, e ci si sono buttati». E hanno costruito una rete che ha coinvolto tante persone, informatori, vedette, autisti, ci hanno guadagnato in tanti. «Ma sì, anche noi pescatori. Una barca, in tempi normali, si vende a 10mila dinari, circa 5mila euro. Con l’avvio delle traversate verso Lampedusa sono arrivate a costare dieci volte di più, d’altronde per salirci bisognava pagare anche 3mila dinari a testa, 1.500 euro, e le stipavano per farci stare persino trecento persone. Fate un po’ i conti». E però ne parlano come se fosse finita: e la barca di ieri? «Non lo so - dice ancora il pêcheur  - forse erano gli ultimi rimasti, magari per i trafficanti era più rischioso tenerli nascosti che  buttarli sopra e farli partire. Ma sono certo che siano salpati da un’altra parte». E dunque l’esodo è finito? «Ma no, questo non lo si può ancora dire. Certo le partenze sono diventate molto più difficili». Risaliamo in macchina. Le strade piene di gente, tanti gli uomini - soprattutto anziani - che se ne stanno seduti sui gradini davanti a casa o al negozio, e lo diciamo a Mouldí  sorridendone, «questi potrebbero starsene qui per ore a far niente». Lui risponde: «Per ore? Per tutto il giorno. Noi tunisini sappiamo aspettare. Ci abbiamo messo 23 anni per rivoltarci a Ben Alì, poi in soli 23 giorni l’abbiamo cacciato». E dunque anche i trafficanti stanno aspettando che torni il momento buono? «Può darsi, può darsi. E potrebbero starsene fermi settimane, mesi. Magari per sempre». Poi si ferma un attimo. «Qui adesso c’è tanto da fare, non è più tempo di fughe. Aspettiamo e vedremo».   di Andrea Scaglia