Cosa fa paura ai giudici? L'idea di lavorare
La paura è che gli tocchi di lavorare, anzi neanche, perché se i magistrati in futuro non riusciranno a chiudere un primo grado in qualcosa come tre anni (tre anni, non tre giorni) potranno sempre dire che è colpa di Berlusconi: eppure lo sanno tutti che i magistrati lavorano mediamente poco, che non di rado tizio «oggi non c’è», che caio «oggi lavora a casa», che sempronio «oggi non è venuto», che pochi si sobbarcano il lavoro di molti, che molti sono imboscati o fuori stanza: perché sono uomini e funzionari e dipendenti statali come gli altri, la differenza è che non timbrano il cartellino (e dici poco) e che in qualche caso si sentono eticamente superiori agli altri salariati pubblici. Cosicché i problemi sono sempre altrove: è colpa della «mancanza di risorse» se al pomeriggio in tribunale c’è il deserto dei tartari, è colpa della «cattiva organizzazione» se molti magistrati appongono fuori dalla porta gli orari di ricevimento come se fossero insegnanti delle medie, e se un avvocato cerca un fascicolo e però il pm l’ha portato a casa. Uno sgobbone come Francesco Ingargiola, presidente della Corte d’Appello di Caltanissetta, lo disse chiaramente in un libro di Massimo Martinelli: «Nei tribunali il problema principale è proprio questo, far lavorare e motivare i giudici; perché se la giustizia è al capolinea non è colpa solo di leggi farraginose, ma anche di molti colleghi che non lavorano a sufficienza». Ecco perché i parenti delle vittime di Viareggio dovrebbero farsi spiegare, dai magistrati, come abbiano fatto a non fissare neppure la prima udienza dopo due anni e mezzo; i terremotati dell’Aquila dovrebbero farsi spiegare se undici anni e otto mesi non siano più che sufficienti per definire un giudizio ed evitare la prescrizione; mentre i risparmiatori truffati dalla Parmalat dovrebbero farsi spiegare, pure, perché siano serviti sette anni per un primo grado sulla bancarotta, mentre il processo bis - quello contro le banche - attende ancora la prima sentenza. Già oggi vanno in prescrizione 450 processi al giorno: i magistrati non hanno nessuna responsabilità in tutto questo? E neppure i 51 giorni di ferie l’anno - record italiano - significano niente? Si saranno mai chiesti, i magistrati, perché la vecchia uscita del ministro Renato Brunetta sui tornelli a palazzo di Giustizia, in un sondaggio pubblicato dal Corriere nell’ottobre 2008, vide favorevole l’80 per cento dei votanti? Anche Giuliano Pisapia, candidato sindaco a Milano, lo disse chiaramente: «Lavorano poco». Suggerì che si facesse come quel procuratore capo che ogni mattina bussava dai vari magistrati per dargli il buongiorno. Eppure, per qualche ragione che sa di sacralità, le toghe sono sottratte al computo dei fannulloni della pubblica amministrazione: forse perché affianco ai lavativi ci sono gli stakanovisti. A Napoli, dall’iscrizione alla richiesta di rinvio a giudizio per Berlusconi, il procedimento per il caso Saccà impiegò 32 giorni: feste comprese. L’Appello del caso Mills l’hanno sbrigato in un mese e mezzo e le motivazioni erano state depositate in 15 giorni anziché in 90: così il ricorso in Cassazione è stato velocizzato. Il primo grado oltretutto aveva fatto sfilare 47 udienze in meno di due anni, lavorando - sacrilegio - anche sino al tardo pomeriggio, talvolta - pazzesco - anche nei weekend. Nelle scorse settimane, in compenso, un’intera procura che doveva mandare alla sbarra Berlusconi - caso Ruby - si è fatta prestare gente da altri uffici, così da macinare tutte le fotocopie necessarie: del resto la prostituzione minorile è il problema cardine del Paese. Già che ci siamo: Antonio Di Pietro ha perfettamente ragione a dire che la giustizia italiana funziona benissimo e che il processo breve in sostanza c’è già: nel febbraio 2009 fu inquisito per offesa al Capo dello Stato e prosciolto in dieci giorni, tempo necessario affinché il pm compisse «una lettura attenta» e archiviasse con un fiume di motivazioni; Di Pietro dimostrò che la Giustizia è celerrima già dai tempi di Mani pulite, quando alcuni personaggi (solo alcuni, peccato) giunsero ai terzo grado in soli tre anni; lo dimostrò anche quando cominciò a querelare: un’intervista contro di lui, uscita su Repubblica nel febbraio 1997, andò a giudizio in meno di due mesi, il 3 aprile successivo; e che la giustizia non perda tempo lo dimostrò anche a Brescia, quando evitò ogni processo a suo danno (prestiti, Mercedes, case eccetera) incassando una serie di «non luoghi a procedere» che per qualsiasi altro cittadino, statistiche alla mano, si sarebbero tradotti in automatici rinvii a giudizio. Lui se la cavò in sei ore. Tutto il resto, meno rilevante, va come sappiamo: sette anni per mandare in primo grado un processo per usura (a Milano) e un minimo di cinque anni (nel resto d’Italia) per un qualsiasi penale in primo grado. È per questi processi che manca la carta per le fotocopie, che Tizio è in malattia, che la segretaria è in maternità: le solite cose che secondo l’Associazione nazionale magistrati costituiscono i soli problemi «strutturali» che ci vedono in coda alle classifiche mondiali sulla giustizia. I nostri processi durano dieci volte più della Francia e cinquanta volte più della Gran Bretagna: forse è perché li facciamo meglio. di Filippo Facci