D'Alema: "Voglio 30 milioni di stranieri in Italia"

Giulio Bucchi

Per la verità, noi qualche sospetto lo avevamo sempre avuto. Guardatelo: capelli neri, ora avviati a diventare bianchi, occhi neri, baffetti, carnagione non propriamente svedese. Sembra un nordafricano, che non è un insulto: constatazione di indiscutibili tratti somatici. Adesso, per sua stessa ammissione, ne abbiamo la conferma: Massimo D’Alema è un immigrato. Viene dalla Tunisia o forse dalla Libia. Non sappiamo di preciso. Potrebbe anche essere algerino. Comunque, chi pensava ad un’origine sovietica, sbagliava: Africa del Nord. Un giorno di tanti anni fa, un suo antenato salì a bordo di una barca, che però non era un comune barcone di disperati. Date le passioni e le tradizioni, doveva essere un’elegante imbarcazione a vela di nome Ikarus comprata in cambio di sette tappeti, tre cammelli e un Veltroni d’epoca. Allora i leasing si facevano così. Oggi Veltroni non lo vuole più nessuno. I D’Alema sbarcarono a Lampedusa, e non finirono in un centro di accoglienza. Risalirono la Penisola, si iscrissero al Pci e fecero carriera. Il  resto lo conoscete: Massimo divenne presidente del Consiglio (quello italiano, non tunisino) e oggi è presidente del Copasir. E ieri ha voluto svelare le sue origini: «Sono un immigrato di trentesima generazione». In attesa dell’espulsione, ecco la cronaca della confessione. Sultano Max ha parlato alla prima Conferenza nazionale del Pd sull’immigrazione. Era vestito all’occidentale, ma non lasciatevi ingannare: il cuore, come sempre, era tutto sull’altra sponda del Mediterraneo, tra i connazionali. Ha detto che alla solidarietà non deve essere posto alcun limite. Tutti gli immigrati che arrivano da noi - ha spiegato - devono essere considerati rifugiati. Non bisogna andare «a vedere da dove vengono. Bisogna accoglierli temporaneamente, poi magari negoziare con gli altri Paesi per un rientro assistito». Sbarcate e noi vi spalancheremo coste e centri di ospitalità. Oggi, e anche domani, perché il nostro futuro è l’Africa. Dice il Sultano, e noi non gli crediamo: «Nei prossimi 15 anni, se l’Europa vorrà mantenere un livello demografico ragionevole e avere un decente sviluppo economico, avrà bisogno di almeno altri trenta milioni di immigrati». Dobbiamo presumere, visti i ragionamenti di D’Alema e la posizione geografica dell’Italia, che i trenta milioni sbarcheranno tutti a Lampedusa con il beneplacito del Pd. Poi, magari, gli altri Paesi, dopo aver opportunamente negoziato, se ne prenderanno due o tre mila. Non siamo certi se ai restanti ventinove e passa milioni penserà direttamente D’Alema o un suo incaricato. Ma non ha importanza. Alì Baffin è convinto. Convinto che il governo Berlusconi abbia sbagliato («la Francia sa quel che vuole, noi no»). Convintissimo che l’intervento militare in Libia abbia già prodotto effetti positivi («l’offensiva di Gheddafi contro il suo popolo è stata fermata»). Ultraconvinto che ciò che sta avvenendo a Lampedusa sia sempre colpa del governo («se li avessimo accolti decentemente, non si sarebbero neanche visti»). D’Alema, si sa, è uomo dalle grandi e forti convinzioni, anche quando commette grandi errori e anche quando pensa di trasformare Roma e Milano in una succursale di Tunisi e Tripoli. Ma voi non dovete avercela con lui. Alì parla col cuore. Comprendetelo: anche se l’Ikarus non è un barcone, le origini sono quelle. Ha spiegato D’Alema: «Non esiste il ceppo etnico del popolo italiano. Siamo una mescolanza di razze che si è venuta formando nel corso dei secoli. Basta andare in giro per vedere diverse fisionomie e riconoscere i tratti originari dei nostri concittadini». Loro, per esempio, i D’Alema, non hanno nulla a che fare con normanni e longobardi: «Se noi dovessimo dividerci sulla base del ceppo etnico, io dovrei mettermi con Alim Maruan. Non ci vuole molto a capire che ci sarà voluto qualche secolo prima che il figlio di Alim diventasse D’Alema». La qual cosa, ripetiamo, di per sé non è un male né un bene. È solo l’origine, e può aiutarci a capire certi innamoramenti. Questione di fratellanza. Ne prendiamo atto e giriamo la domanda a voi: ma ad Alim Maruan D’Alema, noi italiani, dobbiamo dare il permesso di soggiorno o rispedirlo a casa? di Mattias Mainiero