Il Cavaliere e la paura di attacchi terroristici

Andrea Tempestini

Il peso delle decisioni è asfissiante, Berlusconi sente il bisogno di divagare. Dirotta il corteo presidenziale, in marcia verso l’aeroporto di Le Bourget, e fa tappa alla mostra dell’antiquariato, sugli Champs-Èlysées. Dà un’occhiata agli articoli, si ferma a fare foto con i francesi che glielo chiedono. Scherza: «Qui non ci sono contestatori organizzati». Il presidente del Consiglio è a Parigi, partecipa al vertice straordinario dei capi di Stato sulla crisi libica. Sceglie un ruolo da non protagonista, il Cavaliere, e lo fa con cognizione. Durante la riunione parla di «uno tsunami della libertà» che sta travolgendo i Paesi arabi, un’onda che l’occidente deve cavalcare. Poi si sofferma con il segretario di Stato Hillary Clinton e il premier britannico David Cameron. Insiste perché il coordinamento delle operazioni tocchi alla Nato e abbia sede in Italia, a Napoli. Un modo per togliere centralità a Sarkozy (in ballo c’è la difesa degli interessi  dell’Eni, insidiati dai colossi Tamoil e  Bp), senza esporsi in prima persona. Finito il vertice, Berlusconi riferisce telefonicamente a Napolitano (che apprezza: «L’Italia farà la sua parte»), poi tiene una conferenza stampa all’ambasciata italiana. È prudente: «Abbiamo messo a disposizione le basi», ricorda il capo del governo, e c’è l’impegno anche a «intervenire direttamente nelle operazioni militari se necessario». Ma, al momento, non è necessario: «I mezzi di Francia, Inghilterra e altri Paesi credo siano sufficienti». Quanto a Gheddafi, «è difficile che che un regime durato 41 anni possa continuare con quello che è accaduto», ma durante la riunione parigina, confessa Berlusconi, non si è arrivati a parlare di esilio: «La preoccupazione è che non ci siano vittime tra la popolazione civile», per il dopo-Colonnello «ci sarà il percorso diplomatico».   Infine il Cavaliere ci tiene a tranquillizzare la gente: «Il regime libico non ha armi in dotazione che possano raggiungere il territorio italiano». È così? In realtà Silvio è molto preoccupato. In apprensione proprio perché conosce bene Muammar e sa quanto sia matto il beduino. È vero: il rischio non è un missile in partenza dall’altra sponda del Mediterraneo (c’è il precedente, fallito, del 1986), ma uno peggiore. Che si attivi «una rete terroristica» legata al regime di Tripoli e che questa agisca, per rappresaglia, «con attentati» contro gli Stati più esposti. La situazione consiglia prudenza, il protagonismo di Sarko infastidisce, e non poco, Berlusconi. In serata, quando le navi americane iniziano a fare fuoco (e il Pentagono sfila il joystick all’Eliseo), il premier italiano segue la situazione con apprensione, ma non cambia la strategia: un passo indietro agli altri. È un «conflitto impopolare» perché combattuto davanti la porta di casa: Silvio non aspetta i sondaggi per scoprirlo, lo sa. Eppoi c’è l’emergenza immigrazione, su questo Berlusconi deve dare ragione a Bossi. Arriveranno in migliaia dalla Libia e il governo non potrà fare nulla stavolta: i libici in fuga scappano da uno scenario di guerra, sono rifugiati politici. Bisogna accoglierli. L’ultima ragione che spiega la prudenza berlusconiana è legata al bilancio. Far alzare i Tornado in aria per sganciare bombe sulla Libia ha un costo. E  Tremonti non vuole sganciare. Pacifista? Rigorista. di Salvatore Dama