Procura archivia il cocco dei manettari De Magistris: 30 flop su 30
Trenta su trenta fa un certo effetto. Soprattutto se si tratta di trenta archiviazioni chieste dalla procura di Catanzaro e sottoscritte in toto dal gip Maria Rosaria di Girolamo dopo che l’allora pubblico ministero Luigi De Magistris aveva ottenuto la sua notorietà mediatica proprio su inchieste come la cosiddetta “Toghe Lucane”, prima di buttarsi in politica con l’Idv. Con ben ventiquattro capi di imputazione: dalla corruzione in atti giudiziari, da aggiusta processi, all’associazione a delinquere. Trenta su trenta, un altro procedimento choc di De Magistris finisce invece in archivio. Non solo non c’erano prove ma nemmeno indizi tali da poter essere vagliati in un processo. Così il successore, il Pm Vincenzo Capomolla di Catanzaro ha chiesto e ottenuto di mandare tutto in soffitta. L’elenco delle persone che riacquistano dignità dopo il fort apache mediatico sono di livello. A iniziare dalla nomenclatura in toga della Basilicata che per l’accusa (ora evaporata) si era riunita addirittura in un’associazione a delinquere dai mille tentacoli sorprendenti. Infatti, c’era un arci nemico di John Henry Woodcock come Vincenzo Tufano, procutore generale a Potenza, magistrati lucani come Gaetano Bonomi e Felicia Genovese dell’antimafia, il procuratore capo di Matera Giuseppe Chieco, poi Iside Granese, presidente del tribunale di Matera, fino all’allora moglie di Marco Follini, l’architetto Elisabetta Spitz, senatori come l’aennino Emilio Buccico, all’epoca membro del Csm, e l’ex presidente della Regione Filippo Bubbico. Qualificato il gruppo di carabinieri coinvolto con i generali Massimo Cetola (già numero due dell’Arma) ed Emanuele Garelli, oggi a capo della Dia, ufficiali come il colonnello dei carabinieri Pietro Gentili, capo della polizia giudiziaria a Potenza, Luisa Fasano, dirigente della squadra mobile della città dove era indagato anche il questore Vincenzo Mauro, per finire con l’avvocato Giuseppe Labriola, presidente dell’ordine forense di Matera. In particolare “si ipotizzava” per Tufano e Bonomi che “esercitassero un’indebita attività di interferenza nei confronti del pm di Potenza John Henry Woodcock”. Un gruppo di potere quindi che avrebbe addirittura aggiustato processi, favorito amici e amici degli amici, in una lobby in toga dalle capacità criminali sorprendenti per telecomandare la giustizia fino ad influenzare addirittura procedimenti disciplinari e promozioni espressi al Csm, tramite Buccico. Senza privarsi della solita massoneria coperta espressa, sempre per l’accusa di De Magistris, stavolta dal malcapitato avvocato Labriola. Invece, al netto dello stile proprio di De Magistris di condurre le indagini cosa rimane? Il nuovo pubblico ministero chiede l’archiviazione “fondata sulla mancata individuazione di elementi fattuali di per sé idonei a integrare gli elementi costitutivi dei reati ipotizzati o comunque tali da consentire il proficuo esercizio dell’azione penale”. In una parola, lo zero assoluto. Nel provvedimento, infatti, si ripetono frasi come “nulla è stato provato”, “vi è la mancanza della prova”, e “non si rinvengono elementi tali da poter desumere che vi sia stata una effettiva ingerenza in ambiti ispettivi e disciplinari per favorire alcuni magistrati di Potenza”. In pratica il gip osserva come la profonda spaccatura presente a Potenza tra giudici, da una parte Woodcock , il gip del Savoiagate Alberto Iannuzzi e il procuratore capo, non nasceva da una serie di illeciti penali evidenziati proprio da questo gruppo che puntava l’indice contro chi è finito sotto inchiesta da De Magistris. Anzi, i rilievi e le contestazioni che Tufano e Bonomi muovevano nei confronti di Woodcock e Iannuzzi erano legittime. Dalle macerie si può costruire ben poco. E se per De Magistris si tratterà di acqua passata, bisogna ricordare che alcuni dei colleghi sui quali indagò non hanno retto anni e anni di esposizione mediatica e di accuse. Come la Granese che per questa inchiesta lasciò la magistratura per trovarsi ora riabilitata. di Gianluigi Nuzzi