Il processo alle intenzioni non conosce lentezze

Giulio Bucchi

Da quindic’anni il centrodestra annuncia delle riforme della giustizia più o meno epocali, da quindic'anni lo stesso centrodestra poi non realizza nessuna riforma epocale e si limita a evocarne i caposaldi principali, da quindic’anni il centrosinistra si oppone in ogni caso anche solo ai capisaldi principali -  difendendo la magistratura purchéssia - e ora si ricomincia, anzi peggio, perché finalmente il centrodestra si accinge a entrare nel merito e a presentare appunto dei testi e delle leggi: ma ecco, una certa sinistra nonché l’asse Di Pietro-Spataro è già salito sulle barricate prima di aver letto una sola riga. Dicono che Berlusconi bluffa: ma non vogliono vedere le carte che ha. Minacciano di far saltare il tavolo: perché l’altro bara, dicono. Il quadro è più o meno questo.  Abbiamo ripetuto sino alla nausea che il centrodestra sulla giustizia ha inciso poco, e sulle ragioni di questa disfatta - ragioni strette tra il corporativismo delle toghe e i malumori centristi e di An - anche le analisi si sono sprecate. Verrebbe da dire che la sinistra, da par suo, si sia limitata a inseguire Berlusconi ancora una volta, e abbia cioè messo sullo stesso piano le leggi ad personam che il Cavaliere sfornava e la riforma strutturale di cui il Paese necessitava. Verrebbe da dire che la sinistra, in pratica, contestasse e non proponesse niente: ma non è neanche del tutto vero, paradossalmente. Separazione delle carriere, discrezionalità dell’azione penale, limiti alle intercettazioni, queste cose: sono i capisaldi dell’annunciata bozza Alfano ma costituiscono anche l’ossatura di quanto annunciò e tentò di realizzare il governo Prodi. Qualcuno ricorderà il Giovanni Maria Flick in versione guardasigilli: è l’uomo che nel marzo 1995 propose addirittura un’«amnistia condizionata» per Mani pulite, figurarsi, un legge che mirava oltretutto a evitare che molti imputati potessero cavarsela con la prescrizione come poi è puntualmente accaduto. Flick, pochi mesi dopo, venne chiamato da Prodi nella squadra che doveva stilare il programma dell’Ulivo: e fu lui a introdurre il cosiddetto giudice unico in sostituzione dei collegi a tre, una rivoluzione volta a ottimizzare le risorse e a unificare Tribunali e Preture e Procure; fu lui a fissare in soli sei mesi i termini per le indagini contro ignoti, arma impropria di molte procure per tenere sotto scacco chi non era ignoto per niente; fu lui - eccoci - a tentare per primo la segretazione di tutti gli atti di indagine e il carcere per i giornalisti: esattamente come preannunciato a suo tempo dal ministro Angelino Alfano. Fu soprattutto il governo Prodi - con Di Pietro ministro - a progettare una separazione tra pm e giudici che rendesse impossibili i passaggi di carriera dentro una stessa Procura. Detto tra parentesi: fu Giovanni Maria Flick anche a chiudere le carceri dell’Asinara e di Pianosa come da tempo chiedeva il centrodestra, e fu pure lui - dopo l’accusa di abuso d’ufficio rivolta a Prodi in ordine alla cessione della Sme, nel 1997 - ad approvare una bella legge ad personam che immunizzava il presidente del Consiglio che l’aveva nominato. Sempre tra parentesi: fu anche uno dei Guardasigilli che spedì più provvedimenti disciplinari ai magistrati del Pool (davanti al Csm finirono Davigo, Colombo, Ielo, Greco e Ramondini) e però fu decisivo, Flick, perché fosse bocciata una fondamentale riforma del centrodestra sulla giustizia: è l'uomo che nel 2000 fu nominato giudice costituzionale e firmò personalmente la sentenza che respingeva la Legge Pecorella, quella che prevedeva l’impossibilità della pubblica accusa di appellare le assoluzioni di primo grado. Legge che Alfano, non a caso, ora vorrebbe riproporre insieme a molte altre. Ma ora queste proposte di Alfano, la sinistra, non vuole neppure vederle. Le ha già bocciate di principio. Il processo alle intenzioni è l’unico che non conosca lentezze.