La sinistra si ruba anche la festa della donna
Non solo otto marzo, dicono. E infatti: poi c’è il 9 marzo (manifestazione degli avvocati) e poi il 12 (manifestazione in difesa della scuola e della Costituzione) e poi il 17 (unità d’Italia) dopodiché le iscrizioni sono libere, «Piazza continua» continuerà a piacere anche se le assenze paiono già imbarazzanti: è stato Walter Veltroni, infatti, a chiedersi perché «nessuno prova a riempire le piazze contro Gheddafi». Si sono dimenticati, a sinistra. E il punto non è che un corteo del genere non sarebbe abbastanza antiberlusconiano (mentre gli altri lo sono esplicitamente) ma, a sentire il vicedirettore de l’Unità, Giovanni Maria Bellu, il problema è che il popolo della sinistra è stato «colto di sorpresa dal dittatore». L’ha detto lui, Bellu, durante un dibattito radiofonico che c’è stato ieri mattina. Cioè: l’uscita di Berlusconi sulla «scuola di Stato» è di una settimana fa, e la manifestazione è già pronta; la rivoluzione libica è cominciata a gennaio ma a sinistra sono ancora sorpresi, anzi, «intimiditi» come ha pure detto il vicedirettore de l'Unità. Il punto vero ovviamente è uno solo, ed la politicizzazione delle manifestazioni che impedisce di aderirvi a chiunque voglia manifestare a favore di qualcosa e non, necessariamente, contro Berlusconi. È già successo con la manifestazione «delle donne» il 13 febbraio e risuccederà domani con l’otto marzo, e poi a ruota. Per capirlo basta sbirciare il comunicato per la manifestazione più imponente, quella del 12 marzo organizzata da Repubblica: «L’assalto di Berlusconi alla scuola pubblica è un altro colpo alla Costituzione e al principio di uguaglianza». Questo l’inizio. Seguono dichiarazioni di Dario Franceschini, Giuseppe Giulietti, Italo Bocchino, Nichi Vendola, Antonio Di Pietro più un insieme di oltre 65 organizzazioni che nell’antiberlusconiamo hanno il loro core businnes: perché quello del Cavaliere «ormai è un delirio», si è lasciato scappare Giulietti, «che va arrestato». E processato, certo. Anzi neanche, i processi non sono neppure necessari. Le rivoluzioni di egiziani e tunisini d’un tratto tornano utili: secondo «due note riviste culturali underground di Roma e Milano», spiegava ancora l'Unità di ieri, «il vento di rivolta che spira dal Mediterraneo potrebbe far resuscitare nel popolo italiano uno scatto d’orgoglio». Ossia? «Occupiamo a oltranza le piazze simboliche del nostro paese finché Berlusconi non rassegni le dimissioni. Inutile aspettare il verdetto della giustizia, spetta al popolo l’iniziativa». Ah, ecco. E da quando? Dal 17 marzo, Festa dell’Unità d’Italia: «Che diventi il nostro nuovo Risorgimento, quella giornata e le seguenti, contro chi osteggia la Costituzione democratica e l’unità degli italiani. Perché non possiamo fare come al Cairo?», si chiedono le due riviste culturali, che si chiamano Loop e Milanox. Forse perché da noi c'è un regime democratico e al Cairo no. Si attende dibattito. Anzi no, neanche: si attende il 6 aprile e annesso processo Ruby, nient’altro:«Riempiamo Piazza del Popolo a Roma, Piazza Castello a Milano e le altre piazze d’Italia», scrivono le due riviste, amplificate da l’Unità, «fino a che Berlusconi non se ne andrà... dopo il 6 aprile non avremo bisogno di aspettare un verdetto definitivo chissà quanto lontano. Non possiamo aspettare il 2013». Hanno fretta. Non c'è tempo da perdere con pacifismi infruttuosi: «Caro Veltroni», scriveva ieri Leonardo, blogger adottato da l’Unità, «quando mi chiede di scendere in piazza contro Gheddafi, mi pare che lei si guardi bene dal mostrarmi un obiettivo concreto. A parte un sostegno generico a chi si batte contro un dittatore, cosa dovremmo chiedere, e a chi?». Insomma, scendere in piazza per chiedere che Berlusconi vada a casa è l’unica cosa utile. E’ l’obiettivo concreto. Le manifestazioni del resto servono a questo: anzitutto a chi vi partecipa, dopodiché servono a coagulare gli animi, a lanciare un messaggio, a finire sui giornali e in tv. Le manifestazioni in sostanza sono tutte delle maxi-conferenze-stampa, dei richiami votati a ottenere uno spazio mediatico che sia rappresentazione di una realtà che non coincide necessariamente con la realtà. E se un tempo le manifestazioni avevano una funzione democratica insostituibile, oggi non sono più l’unico modo di far sentire la propria voce, non sono più una vera sfida al potere costituito, e meno che mai, almeno qui da noi, sono un pezzetto di storia: assomigliano di più al periodico appuntamento di un ricorrente gruppo di persone (sempre quelle da quindic’anni, più qualche innesto generazionale) che ogni tanto si ritrova per far casino con striscioni, bandiere e un certo tempismo. A scendere in piazza non serve un coraggio particolare, anzi, spesso è il segno di un’omologazione. Le manifestazioni sono fatte solo per noi, noi giornalisti, fotografi, cineoperatori, rilevatori di una realtà che è costruita solo al fine di essere rilevata. Ma per capire l’aria che tira in un Paese, purtroppo, il più scalcagnato dei sondaggi resta più significante. Noi giornalisti ci caschiamo ogni volta, sovraesponendo l’ordinario come se fosse straordinario, come se fossimo all’inizio del Novecento o nei primi anni Settanta. Ogni pretesto è buono per far sembrare una minoranza - rumorosa - qualcosa di diverso da una minoranza.