Napolitano e i tanti smemorati dell'immunità
La gente cambia idea, non c’è che dire. Fu l’allora presidente della Camera Giorgio Napolitano, nell’ottobre 1993, a officiare la cerimonia parlamentare che diede il colpo di scure all’articolo 68 della Costituzione, ciò che cancellò la famosa autorizzazione a procedere da concedersi dopo aver vagliato un possibile «fumus persecutionis» dei magistrati. E fu sempre Giorgio Napolitano, nel tardo aprile 1993, a scandire la concessione di solo due autorizzazioni a procedere (su sei) per Bettino Craxi: lo «scandalo», cioè, che sfociò nell’abolizione della medesima immunità parlamentare che ora una parte del Parlamento vorrebbe reintrodurre: ma è complicato, pare. Eppure, per abrogarla parzialmente, il Parlamento impiegò meno di sei mesi compreso il periodo estivo. C’era una fretta del diavolo. Roberto Castelli, Roberto Maroni e Umberto Bossi parlavano di «inaccettabile degenerazione nell’applicazione dell’immunità parlamentare, trasformata in un immotivato e ingiustificato privilegio», e le parole di Gianfranco Fini, Maurizio Gasparri e Ignazio Larussa non erano molto diverse, anzi. Quando l’allora Movimento Sociale fu accusato di aver votato a favore di Craxi, Fini perse la calma e la prese come la peggiore delle infamie: «Siete dei ladri che avete difeso altri ladri», dopodiché scrisse una lettera al procuratore Francesco Saverio Borrelli e auspicò che fosse superato per sempre «l’inammissibile scudo dell’immunità parlamentare». Della sinistra neanche da parlarne: «Noi», come avrebbe dichiarato il pidiessino Giovanni Pellegrino, allora presidente della giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato, «consentimmo che venisse cancellato l’istituto dell’autorizzazione a procedere, strumento a tutela dell’autonomia del potere politico rispetto al potere giudiziario. E si aprì la strada alla mattanza di partiti di governo. Avevamo una sponda al Quirinale, e l’ansia di raccogliere i frutti sul piano elettorale era tale che facemmo in modo che quel Parlamento venisse sciolto anticipatamente». E così, in un battibaleno, fu riformato l’articolo 68 con una votazione bulgara: 525 sí, 5 no e un astenuto alla Camera; 224 sí, nessun no e 7 astenuti al Senato. Relatore della riforma: un giovane forlaniano di ferro, tal Pierferdinando Casini. La riforma sarà approvata definitivamente il 20 ottobre dello stesso anno. L’autorizzazione a procedere di per sé rimase: e rimane, ancor oggi, per richieste di arresti, perquisizioni, intercettazioni e supposti reati di opinione. Ma per indagare e processare, il campo è libero. Dicevamo che cambiare l’articolo 68, cioè la Carta, sembra complicatissimo: eppure, come visto in Parlamento quando ci si mettono vanno veloci. C’è anche un altro esempio, meno celebre ma forse più importante. Nel 1999, dopo che il Parlamento si era visto respingere per sette anni ogni nuova legge sulla giustizia, il governo D’Alema riuscì a modificare l’articolo 111 della Costituzione - e a varare così il nuovo articolo 513, una riforma fondamentale - in soli nove mesi, questo dopo che la magistratura e soprattutto la Corte Costituzionale si era opposta per anni a ogni modifica possibile. Oggi la situazione non è molto diversa: gli strateghi giuridici del Cavaliere non fanno che inventarne di nuove e la magistratura e la Consulta ogni volta non fanno che cassarle: l’unica, davvero, sarebbe tornare a quell’immunità parlamentare oltretutto prevista in vari paesi e nello stesso Europarlamento; l’unica, s’intende, non solo per emendare temporaneamente Silvio Berlusconi dal forcing giudiziario che lo attanaglia, ma anche per cominciare a muoversi verso la normalizzazione di un Paese impazzito.