Benigni fa più male a Santoro che a Berlusconi
«L’indignazione morale è in molti casi al 2 per cento morale, al 48% indignazione e al 50% invidia», diceva Vittorio De Sica dei colleghi radical chic che, sulle terrazze romane, l’ impallinavano ad ogni nuovo successo. Invidia, la superbia allo stato grezzo. Michele Santoro è un ammiratore del De Sica neorealista. Forse lo cita. Ma è spiazzante l’indignazione morale che ieri spinto il tribuno a sfogarsi sul suo sito web, in merito al mostruoso successo di Roberto Benigni a Sanremo. «La partenza del Festival è stata anticipata di mezz’ora e il monologo di Benigni è durato cinquantadue minuti» ha sfrigolato Michele, fresco della palata d’auditel beccata da Raiuno «questa volta Sanremo non ha ospitato una straordinaria performance ma ha inglobato un intero show... Benigni è sempre Benigni. Ma è stato usato per cancellare la diversità. L’operazione grazie a voi (telespettatori) non è riuscita. E noi continueremo ad amarlo lo stesso. Noi». “Noi” è plurale maiestatis. Santoro lo usa a sfregio, a dimostrare che i suoi 4 milioni di spettatori e passa «bastano per dimostrare che Annozero è indispensabile e che nessuna circostanza può giustificare il tentativo di ridurre la televisione ad un programma unico». Peraltro, nessuno aveva mai detto il contrario; anzi Michele come il Wolverine dei fumetti è il migliore in quello che fa, anche se quello che fa spesso non è piacevole. Ma non è questo il punto. Il punto è che Benigni, l’altra notte, ha acceso d’immenso una nazione. Tutta la Nazione. La sua lezione sul Risorgimento, gonfia di slanci di genio e retorica necessaria -vivaddio- è piaciuta al Quirinale, al governo e alle opposizioni, al popolo e alle istituzioni. Era Moliere che incontra Garibaldi che incontra Totò nel monologo struggente della “Preghiera del clown («Signore, se le mie buffonate servono ad alleviare le loro pene, rendi pure questa mia faccia ancora più ridicola, ma aiutami a portarla in giro con disinvoltura...»). Benigni ha toccato vertici siderali, sia di performance artistica, sia di share. Tecnicamente, nonostante la sterminata lunghezza della puntata, fino a 15 milioni di telespettatori pendevano dalle sue labbra: la prima parte (20:40 - 23:21) ne ha contati 15 milioni 398 mila, pari ad uno share del 50.23%. La seconda parte del Festival (23:26 - 01:09) ha totalizzato invece 7milioni 529 mila spettatori e uno share del 53.21%. La media ponderata della serata è stata di 12 milioni 363 mila spettatori pari ad uno share del 50.90%. “Annozero” col suo share del 14,13% si è battuto bene, per carità. Ignazio La Russa che scalcia Formigli ripreso da angolazioni impossibili e Lele Mora che si scaccola verbalmente al telefono erano pezzi d’un Barnum gustoso. Ma, diamine, mettersi al livello di questo Benigni è peccare di ubris, della tracotanza degli uomini verso gli dei. Eppoi c’è un altro elemento grandioso di quella serata più vicina al sogno che al reale: Benigni avrebbe devoluto all’Ospedale pediatrico Meyer di Firenze l’intero cachet festivaliero di 250mila euro. Soldi, peraltro ben investiti dalla Rai che li ha già abbondantemente recuperati nei carichi pubblicitari. Verrebbe da dire: Michele, tu che sei di sinistra, devolvi almeno i tuoi 60mila mensili. Ma sarebbe una provocazione idiota. Non idiota, ma preoccupante è invece lo slancio egotista, irreale di Santoro, figlio di quell’innamoramento per “la forza della forza della messinscena” che lo portò, in gioventù, ad iniziare una carriera al Teatrogruppo nella Salerno del surrealismo italiano. Santoro proponeva Sartre, Brecht, Ferlinghetti e il Marat Sade di Weiss (comunisti), alternandoli con la visione dei film di Sergio Leone (reazionario); roba intervallata dalle lotte sindacali e dai comizi col pugno chiuso a favore dell’eroe di Praga Jan Palach. Santoro, come tutti i teatranti che posseggono la supponenza del talento, tende all’introflessione. Annozero dev’essere il centro del mondo: l’ephos della piazza può esplodere solo su Raidue, il giovedì sera. Sicchè, in questa chiave, Michele legge l’invidia come “base della democrazia” nell’interpretazione che ne dava il comunista Bertrand Russell. Egli vede l’indignazione come afflato letterario. Sicchè, il successo di Benigni fa senz’altro più male a Michele che a Silvio. (Il quale Silvio del fatto che Benigni gli abbia dedicato la metà del tempo di Cavour, Mazzini e Mameli, un po’ dev’essersela presa...). di Francesco Specchia