Corona vs. Libero: "Io furbetto? Se vi becco, vi spezzo"
"Mi attacchino pure, fino a che non li ho a un metro. Poi gli stringo la mano. E quella mano lì, non scrive più": risponde così lo scrittore Mauro Corona all'articolo pubblicato giovedì su "Libero" a firma di Camillo Langone. Dai microfoni della trasmissione radiofonica Un giorno da pecora, Corona si difende: "Io ho sempre detto che andavo in televisione per promuovere i miei libri, perchè ho una famiglia da mantenere". Di seguito pubblichiamo l'articolo di Camillo Langone. Non esistono più gli eremiti di una volta. Se penso a uno scrittore solitario e appartato penso a Céline, penso a Cioran, penso a Gómez Dávila, tutti ampiamente defunti, non penso più a Mauro Corona, che invece è vivissimo ma appartato solo per finta. Lo stravenduto autore friulano ha costruito la sua fortuna sull’immagine di montanaro antimoderno, bevitore insocievole, scalatore di vette inviolate, ultimo abitante di un villaggio spopolato le cui case stanno per essere inghiottite dal bosco. Ci hanno creduto in tanti a questa favola e ci ho creduto anch’io, che pure mi considero guardingo, poco abbindolabile: forse perché è bello credere nelle fiabe, dimenticare la realtà prosaica almeno per la durata di un romanzo. In un momento di sbandamento apparentai Corona addirittura a Paolo Nori, considerandolo, alla pari dello scrittore parmigiano, una delle rarissime, preziosissime epifanie contemporanee dell’anarca jungeriano. E non avevo neanche bevuto tanto, quel giorno. Ora che la cotta grazie a Dio è passata, la verità mi appare nuda e non è un bello spettacolo. Senza veli Devo dire che da qualche tempo è lo stesso Corona a insistere nel mostrarsi senza veli, talmente sicuro di sé da ritenere ormai superfluo il vecchio travestimento. Ieri mi sono imbattuto in una sua dichiarazione raccolta da Antonio Prudenzano: «Mio figlio debutta come scrittore? Avrei voluto scriverlo io un libro così!». In questo modo ho scoperto che ha un figlio: di per sé non sarebbe una notizia strabiliante, ma i dettagli bastano e avanzano per distruggere il mito del Corona Gran Selvatico. «Sono molto felice per il debutto letterario di mio figlio». Un professore universitario romano, ad esempio un Massimo Ammaniti padre di Nicolò, non avrebbe parlato diversamente. Certe felicità sono debolezze tipiche del ceto intellettuale più accademico e più urbano, un montanaro fiero dovrebbe sognare per il sangue del proprio sangue un futuro da padrone della funivia, non da imbrattacarte. «Matteo mi rende davvero orgoglioso». Matteo? Sì, il figlio di Corona si chiama Matteo, che forse è il nome più somigliante a Mauro che ci sia: uguali le prime due lettere, uguale l’ultima... Utile al marketing Per fortuna non credo nella psicanalisi, altrimenti mi sarei sentito obbligato a riempire una pagina di ricami sulla questione. Credo di più nel marketing e so che in questo momento gli uomini della distribuzione editoriale si stanno strofinando le mani: già il lettore bue tende a comprare sulla base del cognome (Francesco Carofiglio entrò in classifica perché confuso col fratello Gianrico), se poi i nomi si assomigliano moltissimo il gioco è fatto. Il delirio di onnipotenza onomastica non si è fermato a Matteo, ho appena scoperto che Corona ha prodotto altri figli e tutti con la M: Martina, Marianna e Melissa. Meno male che stavolta il sesso è diverso da quello del padre e almeno ci sarà risparmiata una somiglianza di barbe e bandane. Tornando a Matteo, che cosa avrà scritto di così geniale? Un «thriller psicologico», dice la presentazione che certifica in due parole la modesta originalità dell’opera, racchiusa nell’ambito di un genere seriale. «Si sviluppa nel chiuso di poche stanze». Ottimo, allora la montagna non c’entra niente. Invece c’entra, giura l’editore, che essendo l’editore storico di Corona padre (potevate dubitarne? In tutta la faccenda si respira l’aria asfittica del maso chiuso) è abituato alle arrampicate, prima sulle cime dei monti e adesso sui vetri: «Un libro angosciante come pochi, specchio di quella che è stata la dura montagna che Matteo Corona, a differenza di Mauro Corona, narra per metafore». Da uomo di poca fantasia non riesco a immaginare come un tinello possa divenire metafora delle Dolomiti, pazienza, cercherò di sopravvivere. Il romanzo potrebbe essere bello a prescindere, obietteranno i più ottimisti. Permettete di dubitarne: sempre la Biblioteca dell’Immagine ci fa sapere che il padre ha «dato un contributo fondamentale» all’opera del figlio, comportandosi da «spietato editor», soprattutto aiutandolo a tagliare. Ora, se i libri di Corona senior hanno un problema, questo è la prolissità, e non ho mai visto un logorroico insegnare l’asciuttezza. Spot in video Ma può darsi che non sia vero niente, che il padre non abbia dato nemmeno uno sguardo alle bozze del figlio e che il comunicato-stampa sia un assemblaggio di panzane avente come unico obiettivo il solito pugno di copie in più: ormai è abbastanza chiaro che l’intera famiglia ha un debole per la pubblicità, per i media specialmente di massa, a cominciare dal capostipite che senza la sua dose periodica di telecamere va in astinenza e dà in escandescenze. Ancora ci si ricorda la furiosa polemica contro Fabio Fazio colpevole di non invitarlo: si era dimenticato della costante presenza nel salotto di Madama Bignardi perché i bestselleristi son fatti così, Corona o Saviano son tutti uguali, piangono e fottono, cioè vanno in televisione per lamentarsi di non andare in televisione. Siccome però le ospitate non bastano mai, in questi giorni si è fatto confezionare uno spot a pagamento, dove con l’eterna canottiera quattrostagioni e un botolo in grembo promuove il nuovo romanzo La fine del mondo storto alla maniera di un prodotto da ipermercato. Ma cos’è questa smania di apparire, ma non stava tanto bene nella baita lassù sulla montagna, «un nido dove non mi raggiungono se non fanno il quarto grado di arrampicata»? Anche quello mi sa che era soltanto un comunicato-stampa. di Camillo Langone