Fare tutto da soli: ecco la migliore larga intesa

Giulio Bucchi

La verità è che «dialogo» e «larghe intese» e «riforme condivise» sono espressioni che in Italia non si possono più sentire, sono un mantra noioso che fa da intervallo tra una rissa politica e l’altra. Lo schema è sempre lo stesso, e Berlusconi e Bersani non hanno fatto che replicarlo, ieri: si ripete il mantra - il dialogo eccetera - e poi si attribuisce all’avversario ogni fallimento, come a dire: vedete?, io ci ho provato a dialogare, a mettere il bene del Paese al centro di tutto, è l’altro che non vuole, è l’altro che fa solo propaganda e ci demonizza. Intanto c’è tutta un’area politico-culturale - la sinistra radicale, Di Pietro, i forcaioli eccetera - che sbraitano e fanno l’inferno perché di dialogo e di riforme condivise non vogliono comunque sentir parlare, anzi, chiamano tutto questo «inciucio». Ieri, anche ieri, non è successo niente di diverso. Non è in discussione, ora, il merito o l’intrinseca serietà delle proposte berlusconiane rilanciate con una lettera al Corriere della Sera: è in discussione la probabilità che venissero colte, cioè nessuna. È chiaro che Berlusconi cerca di uscire dall’angolo in cui le opposizioni vorrebbero costringerlo a parlare soltanto di bunga bunga, è chiaro che doveva far vedere che la buona volontà ce la mette, ed è chiaro che doveva mostrarlo in particolare a Giorgio Napolitano, che di auspicare dialogo e riforme condivise lo fa praticamente per mestiere. Non solo. Una proposta di dialogo bipartisan - altra espressione da orticaria, ormai - in condizioni normali è in grado di dividere gli avversari, talora imbarazzarli, magari scardinare da subito la grande alleanza anti-berlusconiana auspicata da Massimo D’Alema nella sua intervista domenicale. Questo in condizioni normali, appunto: e le condizioni normali semplicemente non ci sono, forse non ci sono mai state. Ovvio che Giorgio Napolitano non l’ammetterà mai. L’importanza del pulpito presidenziale, del resto, non rende meno sfibrato un auspicio che è sempre lo stesso ormai da quindic’anni: che le riforme necessarie al Paese siano appunto condivise, perché la cattiva congiuntura economica renderebbe preziosa un’ampia unità d’intenti. Ma sono parole ormai recitate a memoria: c’è qualcuno che oggi non saprebbe ripeterle, o che non se le ricordava? Ecco perché resterebbe una sola cosa da fare, dopo tutti questi anni: la conta di chi sia realmente interessato (e chi no) a queste benedette riforme, nonché un censimento definitivo, in parallelo, di chi invece giochi soltanto al tanto peggio-tanto meglio. Berlusconi, dal canto suo, dovrebbe ricordarsi più spesso che non ci sono solo la pace e il disarmo come soluzione per fermare una guerra: c’è anche vincerla. C’è che le riforme, cioè, potrebbe rassegnarsi a farsele da solo: «Ora possiamo andare avanti» ha infatti ripetuto ieri dopo aver incassato il prevedibile rifiuto dell’opposizione a ogni dialogo. Ma il presidente del Consiglio, per poter governare liberamente, non dovrebbe aver bisogno di incamerare ogni volta l’indisponibilità della sinistra, e non dovrebbe aver bisogno neppure di regalare periodici contentini al Capo dello Stato: è legittimato da voto, dal popolo. Non è poco, in democrazia.