Cesare Battisti raccontato da Cesare Battisti
Chiedetelo a Cesare Battisti, chi era Cesare Battisti. Fatelo dire, meglio, fatelo scrivere a lui, con parole sue: «Un’uniforme spuntò alle nostre spalle, istantaneamente estrassi la pistola e le esplosi contro tutto il caricatore... Il mio difensore occhialuto si era dedicato anima e corpo a spiegarmi che io non ero un delinquente in galera, bensì un proletario in rivolta sequestrato dal regime. Non avevo nessuna difficoltà a crederlo, anzi mi chiedevo come mai non ci avessi pensato prima». Una confessione? Quasi: è un estratto dal libro di Cesare Battisti «L’ultimo sparo, un delinquente comune nella guerriglia urbana» (edizioni DeriveApprodi 1998) che è un romanzo autobiografico nel quale il protagonista, a parte sporadici episodi di fantasia, ripercorre tutte le gesta dell’autore: stesso gruppo armato, stesse rapine e ammazzamenti di vittime similari, stessi luoghi, stessa evasione dal carcere, stessa fuga e latitanza. Basta leggere. È noto che tra gli assassinati per cui Battisti è stato condannato c’era il commerciante Pierluigi Torregiani, un orefice che nel tafferuglio sparò e colpì suo figlio Alberto, poi costretto alla sedia a rotelle; i giornali chiamavano Torregiani «giustiziere» o meglio «sceriffo in borghese», come titolò «La Notte». Ebbene, ecco un estratto da pagina 104 del libro di Battisti: «L’azione prevedeva solo una punizione, misurata, senza spargimento di sangue, contro il “cittadino che si fa Stato”, così chiamavamo i grassi commercianti… Ma lo “sceriffo” reagì sparando all’impazzata, ferendo gravemente un passante. I compagni furono costretti ad abbatterlo». Si abbattono le bestie al mattatoio, forse andrebbe spiegato al romanziere, ma queste, come è spiegato a pagina 110, sono sciocchezze borghesi: «Non star a perdere tempo in chiacchiere, occupati piuttosto del prossimo consigliere cretino della Dc da azzoppare». Pagina 112: «Il Potere aveva giocato la carta dello scontro armato… Rividi la faccia della signora nera che non voleva cadere sotto i colpi della mia pistola, l’odio m’invase il petto. Non c’erano abbastanza pallottole per farli fuori tutti questi porci». Pagina 45: «Quei deficienti del Movimento studentesco... dovrebbero sfondare il cranio ai baroni della Statale». E l’obiezione par già di sentirla: ma no, è solo un romanzo, sarebbe come prendersela con Dostoevskij per «Delitto e castigo». Balle. È autobiografia pura, nei fatti e nello spirito. Lo dimostra, tra molto altro, anche la nota introduttiva di Roberto Silvi: «Sono stato io a insistere con Cesare per scrivere un racconto a quattro mani che avesse come riferimento la nostra comune militanza. Se abbiano fatto una banda armata, mi dicevo, potremmo pur fare un romanzo assieme». Eccolo il romanzo ed eccola, a pagina 25, la militanza: «A chiunque me ne parlasse, di militanza, indicavo la banca più vicina dicendo: i soldi sono lì, vai a prenderli se sei un uomo». Gli uomini, evidentemente, sono anche quelli che passano il resto della vita a scappare. Interessante anche l’introduzione di Valerio Evangelisti, romanziere anche lui per Mondadori e candidato alle Europee del 2009 nella Lista Anticapitalista. Per Battisti è l’amico ideale, visto che ha anche una casa a Puerto Escondido, Messico. Scrive Evangelisti: «Battisti non è affatto pentito: della storia non ci si pente... Quando chi nel 1977 era democristiano, o addirittura fascista, rivendica un percorso analogo a quello del Movimento, mi viene da sorridere, perché il suo vissuto ludico non può essere stato simile al nostro». Forse il vissuto ludico è quello di pagina 114: «Sdraiato su un prato del Parco Sempione, tracannavo una bottiglia di Biancosarti». O forse è quello di pagina 24: «Appena fuori dal carcere ero andato direttamente nello scantinato dove si riunivano quelli di Lotta Continua... si potevano fumare gli spinelli in compagnia di ragazze che non facevano tante storie». Dottrina niente? Pagina 23: «Le opere di Gramsci facevano parte delle bibbie comuniste che avrei dovuto leggere a tutti i costi... I suoi mattoni naturalmente non li avevo mai letti, però quando c’era da fare casino in sostegno del Vietnam o da spaccare la testa a qualche fascista meritevole, ero sempre stato tra i più combattivi». Almeno quello, compagno. Questo per chi avesse ancora dubbi su un caso che di politico non aveva niente - prima - ma l’allegro Brasile ha riarrangiato a modo suo. A un certo punto fu il ministro della giustizia carioca, si sa, a concedere l’incredibile status di «rifugiato politico» a Battisti e a riconoscere al nostro Paese un ruolo di «persecutore politico»: una decisione che non aveva alcun senso sotto un profilo giuridico e anche puramente logico, in quanto disconosceva, con motivazioni oggettivamente ridicole, tutte le valutazioni che in precedenza erano state date in Italia e in Francia e nello stesso Brasile. Basti che la decisione del ministro, il bizzarro Tarso Genro, l'anno scorso aveva rovesciato i pareri già espressi dal procuratore generale della Repubblica, dal Tribunale supremo del Brasile (l'organo che esamina le richieste di estradizione) e dal Conare, il comitato nazionale per i rifugiati. A questi andrebbero aggiunti, in Francia, il parere del Consiglio di Stato e della Corte di Cassazione, oltre, naturalmente alle pregresse decisioni della magistratura italiana. Una decisione che appare delirante a partire dalle sue motivazioni ufficiali. Nel gennaio 2009, in un'intervista al settimanale brasiliano Epoca, Battisti aveva dichiarato che se fosse rientrato in Italia probabilmente sarebbe morto; aveva anche precisato che nel 2004 i servizi segreti italiani «paralleli» avevano tentato di rapirlo. Sembrava puro vaniloquio, ma corrispondeva a una precisa strategia messa a punto da suoi avvocati, uno dei quali, Eduardo Greenhalgh, era anche un deputato e amico personale del presidente Lula. L'accenno a servizi segreti «paralleli» mirava a prospettare che nel nostro paese si agitino e prosperino strutture illegali in grado di ammazzare chicchessia, ipotesi strampalata ma presa in seria considerazione dal ministro Genro. Pagina 38: «Sono i detonatori, e questa notte i carabinieri si sveglieranno con queste supposte nel culo». E' questo l'uomo che il Brasile vuole proteggere: come se lo stato sudamericano fosse il nostro. Pagina 61: «Il direttore stava tirando su l’antenna della macchina... Gli piantai la pistola in faccia… Incoraggiato dalle grida della moglie, iniziò a porre una maggiore resistenza… la donna assisteva all’esecuzione del marito… al terzo colpo, il direttore fece un giro completo su se stesso e non si mosse più». Pagina 69: «Lo sbirro era passato al tu autoritario. Un buon clandestino a quel punto avrebbe dovuto sparargli in faccia e basta». Il caso Battisti tiene banco. E pensare che tanti di noi, a sentir riparlare di terrorismo, già da tempo avevano un principio di colica: non per cedimento al perdonismo, ma proprio stanchezza fisica, per voglia e tentazione di credere che gli anni di piombo fossero e siano davvero lontani. Poi, però, come accadde nell'autunno 2007, capitava di apprendere che il settimanale francese Nouvel Observateur aveva chiesto ai suoi lettori che cosa rappresentassero per loro le Brigate rosse, e la risposta del 68 per cento di essi era «degli eroi». Ed è lì,dopo un attimo di allibimento, che capivi e capisci perché i francesi e i brasiliani hanno difeso i Cesare Battisti e perché le Fanny Ardant hanno mitizzano i Renato Curcio. Capisci che non c’è neanche da prendersela tanto con loro, perché la loro ignoranza è solo lo strascico di propagande e deliri collettivi che neanche dalle nostre parti siamo riusciti – tutti - a rielaborare, a capire, anche semplicemente a conoscere come meritano.