Atea, rossa, crudele: la Cina non cambia mai

Giulio Bucchi

La Cina resta quella coi funzionari statali che affogano i neonati secondogeniti nelle risaie: cosicché la diplomazia è finita, la battaglia è persa, la Cina resta la Cina. Resta la nazione, cioè, in cui vengono giustiziati più individui che in tutti i Paesi del mondo messi insieme; la nazione - atea, e non laica - della disgraziatissima politica del figlio unico, la nazione che pratica l’aborto sino al nono mese (a calci, se necessario) con le autorità che estraggono il collagene dai feti per produrre cosmetici destinati al mercato europeo. Se il Papa aveva taciuto su tutte queste cose, per anni, è perché si stava giocando una partita delicatissima: milioni di cattolici cinesi rischiano persecuzioni ogni giorno, questo in un Paese dove la libertà religiosa in fin dei conti non c’è e dove segnatamente viene negata la riapertura della nunziatura apostolica chiusa nel 1949: il regime comunista, infatti, nel 1951 costrinse la chiesa cattolica cinese a tagliare i rapporti con il Vaticano e la trasformò in un culto autonomo dalla sovranità papale e ufficialmente consentito solo nelle chiese approvate dal governo. È su questo che si giocava la partita ormai perduta: i cinesi cattolici fedeli al Papa sarebbero ormai sessanta milioni - tre volte il numero di quelli affiliati alla chiesa riconosciuta dal governo - ma non c’è verso che possano passarsela meglio. Perché in Cina, va ricordato, essere cattolici non autorizzati è proibito, pregare è proibito e preti e monache spesso finiscono male. Il fatto che il Papa non abbia voluto incontrare il Dalai Lama apparteneva ancora alla fase diplomatica: «Ci sono molte relazioni ed è bene che continuino», scrisse l’Osservatore Romano. Ma ora basta. È per questo che Ratzinger l’altro giorno ha parlato apertamente della «discriminazione e persecuzione» dei cristiani della Cina continentale, i quali «non si perdano d’animo per le limitazioni alla loro libertà di religione e di coscienza, e  mantengano viva la fiamma della speranza». Ed è per questo che il governo di Pechino ha oscurato immediatamente la Bbc che stava riferendo del discorso del Papa. L’ultimo diaframma diplomatico era caduto in novembre, quando la chiesa cattolica cinese aveva comunicato che avrebbe proceduto alla nomina dei suoi vescovi anche senza l’approvazione del Vaticano. Il New York Times in quei giorni scrisse che negli ultimi anni le relazioni tra la chiesa cinese e il Vaticano erano migliorate e che molte nomine decise in Cina erano state accettate dal Papa. Ma erano eccezioni, e Benedetto XVI fece sapere di essere «molto infastidito». Il processo di riconciliazione, fece capire, poteva arrestarsi bruscamente. Infatti. Ora di certi orrori si potrà ricominciare a parlare più liberamente. Parlare di quando, in occasione della visita di Bush in Cina, il governo si premurò di far «sparire» vescovi e sacerdoti non sottomessi alla chiesa ufficiale; di quando - lo raccontò Asia news in più occasioni - morti e sparizioni dei cattolici non allineati furono all’ordine del giorno. Cosicchè non è eccezionale che sedici suore francescane, tempo fa, siano state pestate a sangue con pugni e bastoni perché ostacolavano la demolizione di una scuola diocesana: è eccezionale che lo siamo venuti a sapere. Altri racconti li ha fatti Harry Wu, cinese fuggito negli Usa e presidente della Laogai Research Foundation: è lui ad aver raccontato come nei laogai - campi di rieducazione voluti da Mao in cui si viene rinchiusi senza neanche un processo - le scariche elettriche, i pestaggi manuali o con i manganelli, l’utilizzo doloroso di manette ai polsi e alle caviglie, la sospensione per le braccia e la privazione del cibo e del sonno non risparmino, oltre ai soliti monaci tibetani, neanche preti e vescovi cattolici. Accade nella nazione in cui i familiari delle vittime di Tienanmen sono ancor oggi perseguitate, e i sindacati proibiti, i minori deceduti sul lavoro impressionanti per numero, per non dire dei cosiddetti morti accidentali: prigionieri che precipitano dai piani alti degli edifici detentivi e che solo il racconto di pochi scampati ha potuto testimoniare. A Reporter senza frontiere e ad Amnesty International è invece toccato il compito di raccontare della rinnovata abitudine di rinchiudere i dissidenti negli ospedali psichiatrici, spesso imbottiti di psicofarmaci senza che le ragioni degli internamenti fossero state ufficialmente stabilite: accade nel Paese che per un anno e mezzo riuscì e celare l’epidemia Sars, giacché i dirigenti cinesi temevano che potesse scoraggiare gli investimenti occidentali. Il Paese che censura un Papa che osi lamentarsi. di Filippo Facci