I commenti - "L'obiettivo di Gianfranco: un grande centro alleato del Pd" di Fausto Carioti
Gioco del cerino, ennesima puntata. Stavolta è Gianfranco Fini a lasciare lo zolfanello acceso nelle mani di Silvio Berlusconi. Il premier, è la richiesta del leader di Fli, «deve dare un colpo d’ala, prendere la decisione di rassegnare le dimissioni, salire al Colle, dichiarare che la crisi è aperta di fatto e arrivare a una fase in cui si ridiscuta l’agenda, il programma, si verifichi la natura della coalizione e la composizione del governo». In caso contrario, avverte da Perugia il presidente della Camera, «è evidente che Ronchi, Urso, Menia e Bonfiglio non rimarranno un minuto in più nel governo». Con tutta la stima e l'umana simpatia che si possono provare per il quartetto finiano, il problema non sono Ronchi, Urso e gli altri due, dei quali un esecutivo può persino fare a meno, ma i numeri dell'aula di Montecitorio, che assegnano all'opposizione e ai finiani (ammesso che abbia ancora senso distinguere tra le due categorie) la maggioranza dei voti. Insomma, tutto come raccontato oggi su Libero: Fini chiede un nuovo esecutivo, senza – ufficialmente – rompere in modo definitivo col PdL, ma lasciando al Cavaliere l'onere di decidere che fare. Il nuovo governo, secondo i finiani, potrebbe addirittura essere guidato dallo stesso Berlusconi, ma dovrebbe contare una presenza più ampia di esponenti di Futuro e libertà e un programma che tenga conto delle istanze di Fli, iniziando dall'allargamento dei cordoni della borsa pubblica (sottinteso: per foraggiare il Mezzogiorno. Il fatto che il Movimento per le Autonomie del governatore siciliano Raffaele Lombardo faccia sapere che «la crisi di governo annunciata da Fini a Perugia è pienamente condivisa dal Mpa» conferma che l'asse meridionalista è saldo e intenzionato a liquidare Berlusconi). Il gioco del cerino, però, non può protrarsi all'infinito: prima o poi qualcuno lo getta via per non bruciarsi. Ci siamo arrivati: Berlusconi ha capito che aprire una crisi di governo potrebbe essergli fatale. Quindi ha respinto la richiesta di Fini e lo ha invitato a mettere gli attributi politici sul tavolo e a sfiduciarlo in aula. Chiaro il desiderio del premier di rimettere il cerino nelle mani del rivale per l'ultima volta: se questo governo deve morire, abbi tu il coraggio di staccare la spina, così gli elettori sapranno con chi prendersela. Una domanda alla quale Fini potrebbe essere presto chiamato a rispondere anche dall'opposizione. Magari da quella Italia dei Valori che vede Futuro e libertà come un nuovo rivale elettorale, e che in questo momento ha tutto l'interesse a presentare una mozione di sfiducia, il cui risultato premierebbe comunque i dipietristi: se la mozione passa, loro sono quelli che hanno dato l'ultima spallata al governo del Caimano; se non passa, hanno smascherato il gioco di Fini, che abbaia tanto ma al momento opportuno non morde. L'impressione è che per vedere il testo di una simile mozione bisognerà aspettare molto poco. In parole povere, la maggioranza che ha vinto le elezioni nel 2008 è sepolta: resta solo da capire chi avrà il coraggio di mettere la firma sotto al certificato di morte. Il disegno di Fini è chiaro. In questa fase coincide con quello di Massimo D'Alema e – in gran parte – con quello di Pier Ferdinando Casini. Siccome Giorgio Napolitano ha fatto sapere che non darà via libera ad alcun governo tecnico nato per cambiare la legge elettorale finché non avrà la certezza che in Parlamento esiste una maggioranza disposta a convergere su un unico testo, Fini ha messo il fidato Italo Bocchino a lavorare gomito a gomito con Luciano Violante, del Pd, Giampiero D'Alia, dell'Udc, e altri esperti dell'opposizione, per trovare l'accordo su una riforma delle regole del voto. La bozza della legge elettorale che costoro vorrebbero è già pronta ed è fatta apposta per favorire l'emergere di un grande centro, formato da Fli, Udc, Mpa e Api e destinato – nelle intenzioni di chi sta lavorando alla norma - ad allearsi con il centrosinistra dopo il voto. Il grande sconfitto, manco a dirlo, sarebbe Berlusconi. Il fatto che Fini ieri abbia compiuto un passo avanti nella escalation contro il Cavaliere conferma che il presidente della Camera è convinto che l'intesa con i suoi futuri alleati sia ormai abbastanza solida. Quando tutto sarà pronto, la grande alleanza anti-berlusconiana alzerà la testa e si presenterà in Quirinale per calare le sue carte. Se Berlusconi c'è, batta un colpo. Chiedere a Fini di assumersi le sue responsabilità, e di sfiduciare il governo in Parlamento votando assieme all'opposizione, è un atto necessario per rendere trasparente il gioco del rivale, ma non basta. Diamo pure per finito l'attuale governo Berlusconi, ma prepariamoci a fare i conti dei numeri al Senato: sarà a palazzo Madama che si capirà se il governicchio tecnico che vogliono realizzare gli aspiranti becchini del Cavaliere riuscirà a insediarsi o rimarrà una pia illusione di Fini, Casini, D'Alema e compagni. In questo secondo caso si andrebbe al voto già a marzo. Per Berlusconi, a questo punto, sarebbe il minore dei mali. Di Fausto Carioti C'E' QUALCUNO CHE ANCORA PENSA CHE NON SI DEVE VOTARE? di Davide Giacalone Dice Gianfranco Fini che, se gli italiani lo vorranno, nel 2013 sarà disponibile a guidare il governo. Grazie, troppo buono. Ma, tanto per saperlo: che succederà nel 2013? Che io sappia si> procederà all'elezione del nuovo Presidente della Repubblica, il che fa sfuggire il nesso con la sua disponibilità (sempre troppa grazia). In quanto alle elezioni, si vota ben prima, quindi, se proprio vuol essere così generoso da dedicare parte del suo tempo alla guida del governo, si prepari subito, adesso. Così gli italiani potranno dirgli se lo gradiscono. Fin qui, però, continua il demenziale gioco del cerino, che, oramai, è divenuto un candelotto di dinamite. Fini ritiene morto l'attuale governo, oramai rinnega non solo le cose del lontano passato, ma anche quelle che ha contribuito a far divenire legge ieri mattina, e invita Silvio Berlusconi ad un passaggio surreale: ti dimetti, ammetti che avevo ragione, poi facciamo un bell'accordo e un governo nuovo, che dura per otto anni (i tre che mancano alla fine della legislatura, più gli altri cinque in cui tocca a lui la sedia di Palazzo Chigi). Berlusconi risponde in politichese puro, distante anni luce dall'uomo arrivato dall'esterno e sovvertitore dei riti di palazzo: se la pensi così votami contro in Parlamento. I passanti, quelli che ancora hanno voglia di farsi distrarre dalle loro faccende, potrebbero lecitamente chiedere: ma se sapete già che rifarete l'accordo, perché non vi chiudete in una stanza e vi parlate, magari senza altri fra i piedi? Provo a rispondere, ammesso che esista davvero qualcuno interessato alla domanda: perché la scena è falsa, tanto quanto un borsa firmata venduta da un bengalese davanti Montecitorio. Non è vero niente. La messa in scena serve a condizionare il gioco istituzionale che seguirà l'apertura ufficiale della crisi di governo, già in atto da mesi. Se Berlusconi si dimettesse il Presidente della Repubblica potrebbe far finta di non capirne i motivi e, quindi, avviare le consultazioni per la formazione di un nuovo governo. Va da sé che non c'è nessuna maggioranza politica omogenea, ma si possono mettere assieme tre interessi: a. quello di chi non intende scollare le chiappe da dove si trova, e sono tanti, anche fra i parlamentari berlusconiani, a suo tempo selezionati in base al carattere fiacco e le idee confuse; b. quello di chi sa che per cancellare Berlusconi dalla scena si deve farlo senza tornare alle urne, quindi la dirigenza della sinistra, i finiani, e buona parte degli abitanti dei palazzi di cui il governo è più accerchiato che circondato; c. quello di chi ha una tale sfiducia nell'Italia e negli italiani che ritiene possibile governarne i conti solo commissariandone la democrazia. E questo sarebbe il governo tecnico, o di transizione. O anche, se si vuole, il prodotto ultimo dell'incapacità a governare. Se Berlusconi, invece, lo cacciano via con una bella sfiducia parlamentare, come prevede la Costituzione, allora sarebbe lui a poter dire a Napolitano: il mandato degli elettori era chiarissimo, andare avanti non è possibile, quindi non c'è altra strada che tornare alle urne. Ecco perché da settimane, direi da mesi, ci stanno lessando l'anima col giochino del cerino. Basta, non se ne può più. Esiste una terza possibilità, che qualcuno dovrà pur prendere in considerazione: parlare chiaramente agli italiani, descrivere la situazione, chiedere scusa e, poi, il voto. La classe politica si presenta complessivamente fallimentare: la maggioranza perché non è stata capace di governare e l'opposizione perché non è stata capace di creare un'alternativa, quelli che traslocano da una parte all'altra perché non hanno orrore di sé stessi. Pazienza, la frittata si fa con le uova che ci sono. Rompiamo quelle, prima di romperci noi. Di Davide Giacalone SILVIO PUO' ANCORA CAMBIARE LA LEGGE ELETTORALE di Renato Besana Chi si attendeva il peggio non è rimasto deluso: il discorso di Fini a Bastia Umbra è stato pessimo, d’una democristianeria deteriore, zeppo di vuoti richiami alle grandi cause per reclamare, qui e subito, tatticismi miserevoli. L’obiettivo è uno solo: giustiziare politicamente Berlusconi, in attesa che la magistratura faccia il resto. Lo si tolga di mezzo, come avvenne con Craxi, e con metodi non troppo dissimili da quelli usati contro il leader socialista. Pietra tombale anche sull’alleanza con la Lega, senza neppure interrogarsi sui motivi che hanno indotto tanti elettori del Nord a traghettare i loro consensi dalla destra al Carroccio. Abbiamo ascoltato un’ora e mezza di luoghi comuni declamati con il sussiego che il presidente della Camera scambia per rigore istituzionale. I giovani, la ricerca, i precari, i tagli alla spesa pubblica che non devono compromettere o sviluppo, e via così: tutto vero, o quasi, ma inutile: non basta invocare un progetto per averlo. Veltroni, al Lingotto, era stato molto più bravo (lui un progetto l’aveva). Nei rari passaggi in cui è uscito dalle nebbie, Fini ha rivelato la modestia disperante della sua proposta: più soldi al Sud, come se finora non ne avesse ingoiati abbastanza. In chiusura, la stilettata sulla legge elettorale, da riscrivere per garantirgli futuro parlamentare e libertà di manovra, ovvero di poter tradire, quando gli tornerà comodo, anche il suo prossimo alleato. La terza repubblica immaginata sabato da Bocchino altro non è se non una riedizione sbiadita della prima. Il governo, vada come vada, è bollito. Amen. Il lato disperante della questione è che il Cavaliere sembra non comprendere da mesi che cosa stia succedendo. Forse i suoi più stretti collaboratori l’informano male, forse fa di testa sua, non sappiamo, ma dalla primavera scorsa non ne ha azzeccata una. Il primo errore, dal quale discendono gli altri, è d’aver sottovalutato la minaccia finiana. Bossi, dotato d’un fiuto mirabolante, gli aveva consigliato di chiudere baracca e burattini subito dopo Mirabello. Non l’ha fatto. La scorsa settimana ha aperto a Casini, il quale non ha nessun interesse a soccorrerlo, dal momento che intende prendere il suo posto. Da ultimo, non s’è curato della legge elettorale; una svista che potrebbe rivelarsi gravida di conseguenze. Forse non è troppo tardi: prima di salire al Colle (e poi discenderne senza maggioranza), si presenti in Parlamento con una sua proposta, maggioritaria o proporzionale, purché di buon senso. Sarebbe la carta migliore per andare a elezioni, evitando le tagliole del governo tecnico e il seguente pantano in cui Fini, ma non è il solo, intende sprofondare l’Italia. Ci pensi Cavaliere, per il bene suo e - soprattutto - nostro.