A proposito di dossieraggio

carlotta mariani

Cominciamo col dire che il vero scherzo probabilmente l’ha giocato Rinaldo Arpisella - addetto ai rapporti di Confindustria con la stampa - alla sua capa Emma Marcegaglia: gli ha spacciato come minaccia reale quello che appunto era palesemente uno scherzo, l’ha per farsi bello e dimostrare la sua efficienza, forse, o per attestare che era in grado di bloccare una campagna in itinere contro di lei. È andata così? Ufficialmente non lo sappiamo, ma è davvero difficile  che una vecchia volpe come Rinaldo Arpisella non abbia capito che uno scherzo era uno scherzo, che un cazzeggio era un cazzeggio. Ma questa non è soltanto la storia di uno scherzo venuto male, o meglio, venuto benissimo: è  uno specchio fedele di come siamo messi male a stampa e magistratura e politica in questo Paese, è il riflesso condizionato che ancor’oggi scatta automatico se il giornalista è di centrodestra. Prima il fallito attentato al direttore di Libero,  che qualche collega ha definito una patacca ancor prima di comprendere che cosa sia effettivamente successo; ora questo tentativo di ghettizzare uno dei giornalisti più assennati del Giornale (Nicola Porro, che l’altra sera, a Exit, su La 7, è stato oltretutto definito «servo» da Fabio Granata) con modalità che sono tutte da ricostruire. E allora ricostruiamole. Porro è vicedirettore de Il Giornale e ora è ridicolmente indagato per «violenza privata» sulla base di sue telefonate ed sms. Il cattivo È un signore che ha scritto di Confindustria e di Emma Marcegaglia una tonnellata di volte: peschiamo un suo pezzo dell’8 dicembre 2007 (criticava la quotazione del quotidiano confindustriale, il Sole24Ore) e poi un altro pezzo del 21 maggio 2009 (lamentava che la Marcegaglia aveva rotto le scatole con certi suoi discorsi) e poi un altro del successivo 24 luglio (si compiaceva che un’azienda aveva abbandonato Confindustria) dopodiché il resto del racconto lo si può leggere in data 27 settembre, e non se n’è accorto nessuno, sul suo blog personale che si chiama “Zuppa di Porro”: «Mesi fa chiesi ad un portavoce della sciura, che si lamentava dei miei attacchi, di fare un’intervista alla signora. Lui mi rispose secco: “Non possiamo perché altrimenti apparirebbe ancora più berlusconiana di quanto sia, se parlasse col Giornale il gioco diventerebbe scoperto”. Non potevo credere alle mie orecchie. Ricapitolando: prima si lamentano del trattamento riservato alla Emma, e chiedono di finirla, allora io propongo un’intervista e loro rifiutano perché lei sarebbe troppo berlusconiana». Ricattatore Ma Porro secondo qualcuno ora è un ricattatore, anzi un coartatore, uno che merita perquisizioni corporali. E perché? Perché il 15 settembre scorso, dopo che la Marcegaglia aveva attaccato il governo e dopo che Porro, come visto,  aveva cercato di intervistarla, lui medesimo aveva inviato un sms a Rinaldo Arpisella, il citato addetto ai rapporti di Confindustria, così congegnato: «Ciao, domani super pezzo giudiziario sugli affari della family Marcegaglia»; poi, ancora, al telefono con lo stesso  Arpisella che Porro conosce da una decina d’anni: «Per venti giorni romperemo il cazzo alla Marcegaglia... ho spostato i segugi da Montecarlo a Mantova», che è la città di riferimento della signora. Morale: siccome nelle trascrizioni telefoniche il tono scherzoso non si percepisce, gli inquirenti non hanno compreso la modalità semiseria dell’sms e della telefonata e si sono limitati  a registrare le successive pressioni della Marcegaglia (su Fedele Confalonieri e poi su Vittorio Feltri) per bloccare una campagna stampa che neppure esisteva: perché era, appunto, tutto uno scherzo, una boutade. Anche perché, com’è facile appurare, nessuno al Giornale ha spostato “segugi” da Montercarlo a Mantova: è una balla, è chiaro. Ecco perché resta solo da capire perché Emma Marcegaglia e Rinaldo Arpisella non l’abbiano inteso (subito) ciò che era semplice da intendere: «Dopo il racconto di Arpisella», ha detto infatti la presidente di Confindustria ai magistrati,  «ho sicuramente percepito l’avvertimento come un rischio reale e concreto per la mia persona e per la mia immagine, tanto reale e concreto che effettivamente ci mettemmo, anzi, mi misi personalmente in contatto con Confalonieri... Il Giornale e il suo giornalista hanno tentato di costringermi a cambiare il mio atteggiamento nei confronti de Il Giornale stesso, concedendo interviste che almeno recentemente non avevo fatto».  La Marcegaglia ha percepito: siamo alla follia. C’è altro da aggiungere? Sì. Come appurato, al Giornale o altrove non esistevano né esistono particolari “dossier” sulla Marcegaglia né niente del genere: : c’è Porro che si è permesso di scherzare con un amico-conoscente il quale forse ci ha marciato, come detto. Però, ecco: vien quasi voglia che dossier e inchieste esistano davvero, visto il paradosso a cui siamo giunti. Nei film americani, infatti,  fanno vedere che un giornalista, la sera prima di pubblicare un articolo contro un potente, gli telefona e lo avverte: da noi, invece, dicono che volesse coartare la sua volontà. Nei film americani il potente attaccato, se vuole, rilascia una dichiarazione al giornalista che gli ha telefonato; da noi, invece, il potente telefona all’editore per bloccare l’articolo prima ancora che esca. In Italia, peggio ancora, poi intervengono i magistrati che se la prendono col giornalista, mentre le iene dattilografe già parlano di “dossieraggio”. Squadristi e no Perché ora il giornalismo si chiama così: dossieraggio. L’archivio e le cartelline che molti aggiornano e conservano possono diventare “dossier” sulla base del semplice uso che se ne faccia. Eppure un conto è osservare che in Italia a farla da padrone, dal caso Boffo in poi, non sono più le notizie di giornata bensì le campagne create attorno a notizie d’accatto, magari vecchie, magari semplicemente archiviate in attesa di costruirci attorno qualcosa; un altro conto, però, è negare legittimità a tutto questo, deprecare o addirittura indagare che un giornale possa fare tutte le campagne che vuole, quando vuole, come vuole, contro chi vuole. In altri termini: in Italia chi fa delle inchieste che ottengono risultati, tanto che la magistratura è costretta a inseguire, da noi è uno squadrista dell’informazione, soprattutto se di centrodestra; chi invece pubblica solo carte giudiziarie, tipo quei servi di procura che sputtanano a destra e a manca dopo che la magistratura magari ha pure assolto o archiviato, ecco, loro invece sarebbero dei giornalisti investigativi. Questo lo schema, che per fortuna abbatteremo anche stavolta. A colpi di dossier, è chiaro.