La casta di Confindustria

Tatiana Necchi

Per gentile concessione di Longanesi Editore pubblichiamo un estratto de “Il partito dei padroni” di Filippo Astone che uscirà oggi in libreria. Astone svela i segreti di Confindustria, un partito come tutti gli altri, con tanto di scandali, guerre interne e conflitti di interesse, ma anche ricco (circa un miliardo di ricavi all’anno), potentissimo e ramificato sul territorio. Di Confindustria si è sempre saputo poco o niente. Questo libro ne esamina la gigantesca struttura svelandone i meccanismi interni e le complesse e oscure alchimie. Nell’estratto che pubblichiamo vengono sottolineati i costi della struttura e la scarsa trasparenza su come vengono gestite le risorse a livello locale. Dopo aver collaborato con diverse testate giornalistiche, dal 2000 Astone fa parte della redazione del Mondo, settimanale di economia allegato al Corriere della Sera, per conto del quale segue le vicende dei grandi gruppi industriali italiani. Quella stessa Confindustria che critica le inefficienze della politica e l’inutilità di enti come le province, è organizzata su base provinciale. Basta percorrere l’autostrada che collega Milano a Venezia, e in tre ore di viaggio si incontrano sette grandi strutture locali, ciascuna con il suo apparato burocratico, con tanto di presidente, vicepresidenti, commissioni, giunta, direttore generale, gruppo giovani, gruppo piccola impresa, gerarchia e apparato burocratico: Milano, Bergamo, Brescia, Verona, Padova, Vicenza, Venezia. Il meccanismo si replica su base regionale (ogni regione, come abbiamo visto, ha il suo presidente, i vice, gruppo giovani, eccetera) e settoriale (presidente, vice, gruppo giovani, eccetera). Una moltiplicazione pazzesca di cariche e poltrone che alla fine riesce a procurare un posto (membro di giunta, di commissione, vicepresidente di qualcosa) a qualunque imprenditore lo desideri, purché sia presentabile in società e dedichi un po’ di tempo alla faccenda. Ma anche un todos caballeros mastodontico, inefficiente e costoso, come nelle peggiori tradizioni di quella politica e di quel sindacato che la stessa Confindustria mette sotto accusa ogni giorno del calendario. Un moltiplicarsi folle di organismi e «cadreghe», che ha bisogno di una quantità enorme di tempo ed energie per il suo funzionamento, e non per produrre idee e soddisfare la mission dell’organizzazione. Parliamo di costi. Stefano Livadiotti, autore di L’altra casta, ha fatto i conti in tasca al sindacato, svelando che la sola Cgil avrebbe ricavi per circa un miliardo di euro. Come il sindacato Una cifra che, secondo l’autore del pamphlet – applauditissimo in tanti convegni confindustriali –, sarebbe un indicatore dell’elefantiasi dell’organizzazione dei lavoratori. Ebbene, è la medesima cifra del giro d’affari di Confindustria ottenuta sommando quote di iscrizione (come abbiamo già ricordato si tratta di circa 506 milioni di euro provenienti dalle quote di iscrizione) e gli utili delle sue attività diversificate (i dividendi da partecipazioni industriali, come il Sole 24 Ore, generano un altro mezzo miliardo di ricavi). In media, Confindustria costa alle imprese aderenti circa 110 euro all’anno per ciascun dipendente di ogni singola azienda affiliata. Una quota superiore a quella che ciascun lavoratore spende per iscriversi al sindacato. Certo, è vero che il contributo viene versato dall’imprenditore e non dal lavoratore e, quindi, in teoria si tratta di un negozio fra privati liberi di impiegare i loro soldi come meglio credono. Ma poi, in pratica, si tratta di denari che finiscono per gravare sull’efficienza dell’intero sistema. E comunque, molte aziende non possono fare a meno di iscriversi a un’associazione, per avere rappresentanza sindacale e accedere a servizi indispensabili. Il tema dei costi eccessivi e della necessità di uno snellimento dell’organizzazione è ricorrente in Confindustria. Nel 2002 l’ex presidente degli industriali di Roma Andrea Mondello, incaricato dall’allora presidente Nicola D’Amato di riformare l’associazione, abbandona all’improvviso il suo incarico. Giustifica l’addio con motivi personali: vuole ritornare a occuparsi a tempo pieno della sua azienda. Vetri oscurati Pochi giorni dopo però, come racconta Sergio Rizzo sul Corriere della Sera, Mondello rilascia un’intervista nella quale lancia l’allarme sul rischio di implosione dell’organizzazione, nel caso in cui non fosse stata portata avanti la riforma cui aveva lavorato per due anni. Riforma che prevedeva efficienza, regionalizzazione, servizi migliori e riduzione dei costi, compresi quelli di iscrizione. Tutto inutile. Al gigantismo si accompagna la scarsa trasparenza nei conti. A fine anno la sede centrale di Confindustria, quella che sta a Roma in viale dell’Astronomia, pubblica puntualmente i propri bilanci. Ad esempio, i conti 2008 hanno visto 44,3 milioni di costi e 51 di ricavi. Questi ultimi sono generati per 39 milioni dai contributi delle associazioni territoriali, e per 12 milioni dagli investimenti finanziari e dai dividendi delle partecipate, il Sole 24 Ore in primis. Le spese del 2008 sono state divise tra personale (46,7%), servizi (27,2%), progetti, eventi e manifestazioni (14,3%), spese generali diverse (8,6%), contributi a Enti (3,1%). La trasparenza sui bilanci della sede centrale, insomma, è massima. Peccato però che Roma assorba poco meno di un decimo dei 506 milioni di euro di contributi che le 103 associazioni territoriali versano. Poco o nulla si sa di come vengano spesi gli altri 455 milioni di euro gestiti a livello locale. Le singole associazioni, ovviamente, redigono un bilancio. Ma siccome si tratta di enti non profit e non di imprese, non sono obbligate a pubblicarlo, né devono depositarlo presso gli archivi delle Camere di commercio. Ciascuna di loro fa come meglio crede. Sia nei criteri di redazione del bilancio, sia nelle modalità di accesso. Ad esempio, Assolombarda, la più ricca delle associazioni territoriali (i contributi versati dagli iscritti sono superiori ai 50 milioni di euro), pubblica on line un bilancio sociale redatto con criteri particolari (unità di misura prevalente è il «valore aggiunto sociale») all’interno del quale si fa fatica a rintracciare costi e ricavi. Sede romana Non è possibile nemmeno dire con esattezza quanto ciascuna impresa paghi per l’iscrizione a Confindustria. Il calcolo di 110 euro per dipendente è solo una media ottenuta dividendo le quote associative per il numero dei lavoratori impiegati a tempo indeterminato nelle aziende associate. Nella pratica quotidiana, avviene invece che l’impresa si iscriva a una associazione territoriale (per esempio Unindustria Treviso) o a un’associazione di categoria (come la Federmeccanica). Oppure a tutte e due. A esse l’azienda in questione paga la quota di iscrizione, che viene in parte riversata alla sede centrale romana. Ma ciascuna associazione applica aliquote diverse, calcolate a sua completa discrezione. Nessuno ha mai realizzato una tavola sinottica che metta a confronto, sommandoli, costi, ricavi, destinazioni di spesa e livello di efficienza delle 103 associazioni territoriali e delle 21 associazioni di settore. Così, l’imprenditore iscritto a Confindustria Lazio non sa se i vertici della propria associazione siano più o meno bravi di quelli di Assolombarda, se le scelte fatte risultino in linea oppure no con quelle delle altre associazioni, se si contino troppi dipendenti o troppo pochi. Insomma, non è in grado di valutare l’effettivo grado di efficacia ed efficienza con il quale vengono spesi i propri quattrini. In pratica, dei veri conti di Confindustria si sa poco o niente, e questo è paradossale per un’associazione che vuol vigilare sulla correttezza e la trasparenza degli altri. E che dovrebbe essere un modello di efficienza e trasparenza gestionale per i propri iscritti.