La vendetta di Silvio

Eleonora Crisafulli

di Fausto Carioti - Anche i dettagli contano. Sul sito ufficiale del PdL, per dire, sono stati tolti i “filtri” ai commenti su Gianfranco Fini. Così ieri chi leggeva lo Spazio azzurro, la bacheca online dove scrivono gli elettori del primo partito italiano, trovava frasi tipo: «Sono stato di An per dieci anni. Ora dico: fuori dalle balle Fini e i finiani»; «L’on. Fini guarda alle prossime elezioni per allearsi con il centro. Bisogna isolarlo subito». E così via. Un modo esplicito, pure questo, per far capire al co-fondatore che il Popolo della Libertà non è più il suo partito. Per Fini, ormai, è previsto il trattamento riservato agli avversari. L’elemento nuovo, del quale ieri si è avuta chiarissima percezione, è la fretta: tutto deve essere chiaro al più presto, si deve sapere quanto prima chi sta con chi, per capire se la maggioranza c’è ancora o se bisogna andare dritti verso le elezioni anticipate. Ha fretta Silvio Berlusconi e hanno fretta molti dei suoi, alcuni dei quali ritengono addirittura possibile e auspicabile il voto a giugno. Ha fretta anche Umberto Bossi, la cui uscita di ieri, in apparenza dinamitarda, era stata invece concordata con il Cavaliere. A margine del consiglio dei ministri, presente il finiano Andrea Ronchi (uno che lo scontro tra i due leader lo avrebbe evitato volentieri), il presidente del Consiglio ha annunciato i suoi propositi con il tono del giudice che legge una sentenza capitale: «Sia chiaro che Fini se ne deve andare subito. O lui o me, anche a costo di finire a elezioni anticipate». Avrebbe detto di più, se non fosse intervenuto Gianni Letta a fermarlo: «Silvio, non è questa la sede». Il messaggio, comunque, era partito: la rimozione di Fini dalla presidenza della Camera è l’obiettivo principale. La motivazione istituzionale la spiega Gaetano Quagliariello, vicecapogruppo dei senatori azzurri: «C’è una chiara incompatibilità tra il ruolo di Fini come presidente della Camera e quello di capo di una corrente di minoranza. Una carica come la sua è come la moglie di Cesare: non può essere nemmeno lontanamente sospettabile di poter agire in funzione di una partita interna al PdL. Per ragioni analoghe, infatti, Sandro Pertini, Amintore Fanfani e Pietro Ingrao, nel momento in cui divennero presidenti di una Camera, sciolsero le loro correnti». E siccome Fini ha già fatto sapere che non ha alcuna intenzione di dimettersi, né può essere sfiduciato, Berlusconi si sta dedicando con cura a bruciargli la terra sotto i piedi. O sfilando le poltrone ai finiani, come potrebbe accadere presto a Italo Bocchino - che rischia di essere rimosso dal suo ruolo di vicecapogruppo del PdL a Montecitorio - e dopo di lui ai ministri vicini all’ex leader di An e ai presidenti delle commissioni parlamentari, come Giulia Bongiorno. Oppure traghettando quanti più finiani possibile dalla sua parte. A dirla tutta, questa rischia di essere operazione assai più semplice del previsto. Tra i cinquanta parlamentari di cui in teoria dispone Fini, molti - anche ieri - hanno inviato a Berlusconi segnali espliciti di disponibilità. Lo stesso vale per alcuni degli uomini di Fini che ricoprono incarichi di governo e per diversi manager delle società a partecipazione pubblica in quota al presidente della Camera. Annientare politicamente l’avversario, tra l’altro, serve a Berlusconi anche per scongiurare il rischio opposto. E cioè che Fini, forte della sua carica, assuma un ruolo di interdizione stabile nei confronti del governo e della maggioranza, finendo pian piano per attrarre quei parlamentari forzisti del Nord - e ce ne sono - che non solo non hanno nulla da temere dal co-fondatore del PdL, ma condividono pure la sua battaglia contro la Lega. È un’ipotesi al momento remota, ma il premier ce l’ha ben presente. L’uscita di Bossi è servita anche a questo. Il leader leghista dapprima ha seminato il panico, dicendo che «siamo davanti a un crollo verticale del governo e probabilmente di un’alleanza, quella tra PdL e Lega». Va da sé che Bossi a rompere l’asse col premier non ci pensa nemmeno, specie dopo aver ottenuto, con l’appoggio del PdL, il governo di Piemonte e Veneto. Qualche ora dopo, infatti, il leader del Carroccio si è corretto, limando gli spigoli e lasciando solo la polpa del suo discorso: il governo deve varare il federalismo e le altre riforme al più presto, altrimenti non resta che il voto anticipato. Bossi non accetterà un parlamento bloccato dal veto degli uomini di Fini, «nemico del popolo del Nord». Per questo serve chiarezza subito. È la stessa posizione di Berlusconi, e non è un caso.