Tra tanti signorsì un futuro leader: Giulio Tremonti
di Davide Giacalone - Che un partito senta il bisogno di parlare di sé e con sé è normale. Diventa patologico che i protagonisti, assorbiti dalle polemiche interne, dalle divisioni e dalla voglia di prevalere l’uno sull’altro, confondano il loro mondo interno con quello esterno, ritenendo i problemi del primo prevalenti su quelli del secondo. Fin qui le formazioni politiche fondate e guidate da Silvio Berlusconi non hanno corso questo rischio, più che altro perché la forza elettorale del leader ha assorbito e attutito la necessità di discutere la linea politica. Ciò, naturalmente, non ha estinto contrasti e rivalità, ma li ha collocati ad un piano inferiore, li ha relegati alla contesa del residuale. La direzione nazionale di ieri è stata la prima occasione, per il Popolo delle Libertà, di una discussione pubblica e politica. Vi si è giunti per ragioni qui anticipate, così come abbiamo anticipato l’ovvia considerazione circa l’incompatibilità fra il ruolo politicamente attivo e polemicamente battagliero e la presidenza di una delle due Aule parlamentari. La discussione di ieri, però, ha messo in luce un politico capace di esprimersi in proprio, guardando al futuro, con la stranezza che l’occasione innescata da uno è stata colta da un altro: Giulio Tremonti. Il suo è stato un intervento breve, ma pesante. Gli argomenti che ha usato erano pensati, non accartocciati con superficialità. Tremonti non ha esitazioni nel riconoscere che la forza elettorale della maggioranza si deve alla leadership di Berlusconi, sa bene che quanto si fa al ministero dell’economia è reso possibile dalla copertura politica ed elettorale del presidente del consiglio e, come tutte le persone che non hanno complessi d’inferiorità, non ha difficoltà a dirlo. Ma proprio perché è noto il suo rapporto con la Lega, proprio perché è il ministro da cui più direttamente dipende l’attuazione del federalismo fiscale, diventa decisiva la sua osservazione: la particolarità del PdL, oggi, è quella d’essere l’unico partito realmente nazionale. Non è un’affermazione banale, non è un argomento polemico, è una piattaforma politica. La sinistra non solo è stata ricondotta, dagli elettori, nel ridotto appenninico, ma è anche dilaniata da contrasti interni che spingono alcuni esponenti del nord a rivendicare una propria autonoma iniziativa, senza neanche escludere che possa divenire separazione organizzativa. Ne ha parlato chiaramente Sergio Chiamparino e lo ha teorizzato Massimo Cacciari. Nel sud continentale l’unica regione in cui ha vinto la recente tornata elettorale è guidata da un esponente, Nichi Vendola, che non si riconosce nel partito, e meno ancora nel gruppo dirigente, che raccoglie il grosso della sinistra. In Sicilia c’è una frattura interna al centro destra, che ne ha generato una simmetrica, nella sinistra.La Lega, dal canto suo, è per definizione una forza a vocazione localistica, che si spera abbia abbandonato per sempre ogni farneticazione separatista. È vero che ha allargato l’area della sua influenza elettorale, prendendo voti alla sinistra, ma non per questo è divenuta una forza nazionale. Il richiamo di Tremonti, quindi, sta a significare che il compito del Pdl è quello di rendere più forte questa sua caratteristica, oggi solitaria. Che va declinata con particolare attenzione al mezzogiorno, dove non solo risiede la vittoria elettorale riscossa nel 2008, ma, soprattutto, si annidano le arretratezze e i problemi che rallentano la crescita dell’Italia. Qui lo Stato non può abdicare al suo ruolo specifico: garantire il rispetto della legge e l’ordine pubblico. E’ vero, il governo può vantare buoni successi, nel contrasto alla criminalità, ma non può fare altrettanto nel funzionamento della giustizia e, in fin dei conti, nella riaffermazione della propria sovranità. Ed è vero quel che ha sottolineato Tremonti, da noi tante volte scritto: il sud non ha bisogno di più spesa pubblica, cui si deve buona parte dell’inquinamento che lo soffoca, ha bisogno di spesa produttiva. Pubblica e privata. Il che sarà possibile restaurando il dominio della legalità. Segnalo una cosa singolare: Tremonti ha dato voce a questo ruolo, nel mentre un altro ministro, Renato Brunetta, gli ha ricordato che le riforme di struttura devono farsi proprio quando la congiuntura economica è negativa, costituendo investimenti non pecuniari. Due linee tutt’altro che incompatibili, ma due posizioni dialettiche. Non nuove, del resto, a significare che la politica, anche nel PdL, cerca più gli interpreti che i teatri.