Che belli quei vaffa, sembrava un partito vero

Eleonora Crisafulli

Forse la frase chiave l’ha detta Angelino Alfano: «Delle buone ragioni, espresse in cattivo modo, possono sembrare dei pretesti».  Ecco, è quello che da troppo tempo accade nel PdL e che anche ieri ha inquinato ogni cosa: un continuo e incessante processo alle intenzioni altrui, ciò che è il peggiore e più invalidante vizio della democrazia. Peccato, perché sino a un certo punto quegli uomini benvestiti che si agitavano accoratamente sembravano addirittura un partito, un vero partito forse per la prima volta. Passavano in secondo piano anche la solita scenografia-fotocopia (quella sì) e una claque che è apparsa patetica e ossequiente da entrambe le parti, come tutte le claque del mondo: ma per il resto ebbene sì, sembrava un partito, e questo non per un feticismo della democrazia volto a santificare persino il litigio e la baruffa, ma perché ciò che sfilava sul palco per una volta era un reality, per una volta era tutto vero, scena senza retroscena, roba da lasciare disoccupate le più dietrologhe iene dattilografe. Un giornalista straniero che avesse ignorato i prodromi e la coda polemica che ha preceduto la direzione nazionale di ieri (riunita per la prima volta in un anno) avrebbe anche potuto pensare che però, questi italiani: parlano chiaro come nordici, altro che fumi e bizantinismi, sembra il Ppe tedesco. Parliamo, ovviamente, del monarca e del principe decaduto: tutto il resto non è sinceramente esistito, perché quella di ieri non è stata un’ordinaria direzione nazionale che ha registrato gli acuti di due prim’attori: è stata un vuoto autocelebrativo in cui Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini, sino a un dato momento, sono parsi le due sole persone normali, i soli che parlavano di qualcosa, cioè dei famosi «contenuti», i soli che si confrontavano con franchezza (anzi, che si confrontavano e basta) e comunque che offrivano spunti, qualcosa di cui discutere. L’eccezionale sembrava l’ordinario di un partito vero, quando per vero s’intende tradizionale, non una reliquia del passato, semplicemente normale nella più neutra delle accezioni, qualcosa che tuttavia appare diverso da ciò che Silvio Berlusconi, a torto o a ragione, desidera o giudica necessario per vincere. Non me ne voglia Ignazio Larussa, ma una direzione nazionale forse non è il luogo per le mozioni degli affetti. Non me ne vogliano tanti altri, ma per le autocelebrazioni ci sono altri posti. Non me ne voglia Sandro Bondi, o forse sì, perché il suo mi è sembrato l’intervento più inutilmente vacuo e servile: attaccare la fondazione Farefuturo mi è parso gratuito come l’idea di Fini di prendersela, risentito, col Giornale. Un partito, comunque. Ma poi, dopo il primo intervento di Berlusconi, e dopo quello di Fini, e dopo un pezzetto della replica del Cavaliere, il risveglio. In un partito normale non si liquida preventivamente chi vuole intervenire dicendo «faremo un’altra direzione nazionale»; in un partito normale il segretario - che non è un segretario: è Berlusconi - non replica immediatamente all’intervento dissenziente di una minoranza, soprattutto se non è contemplata alcuna minoranza. Sto cercando di scriverlo nella maniera più neutra possibile, senza neppure entrare nel merito di tutti gli argomenti di Fini che ho trovato condivisibili: il punto è che un partito plebiscitario, con venature populiste, prescinde dalla qualità degli argomenti e persino dalla maledetta conta, dai numeri. La creatura del Cavaliere, sinora vincente, ha le sue leggi: Berlusconi la difende nella sua integrità. Sembrava, ieri, dapprima, che ci fosse un dialogo, un tentativo timido di riconciliazione coronato con la proposta di un congresso: non era vero. Il processo alle intenzioni era già concluso e passato in giudicato, e non era previsto appello. E’ stato un dibattimento al contrario, un verdetto inesorabile lo aveva preceduto.   Il risveglio si faceva anche più violento nel leggere le homepage dei quotidiani e i primi titoli delle agenzie di stampa: «divorzio», «rottura totale», «devi lasciare la Camera», «non me ne vado». Le forme battevano i contenuti cento a zero. Ieri Gianfranco Fini ha detto che il PdL non funziona. Berlusconi invece ha detto che funziona, ma che sia chiaro, funziona così.