I poveretti che fanno il tifo per il vulcano

Monica Rizzello

Poi uno dice la depressione. Si comincia da Il Fatto: «Perché tifo nuvola», articolo di Massimo Fini. Spiega subito: «È bene che ogni tanto la natura ricordi all’uomo che sta diventando la bestia più stupida del creato».  L’articolo di Fini è volto a dimostrarlo: prosegue a pagina 4 e il titolo diventa «Perché tifo per il vulcano» con un grande occhiello in evidenza: «EYJAFJALLAJOKULL», il nome del vulcano islandese. Un paio di frasi: «La Grecia è in crisi? Fino a una cinquantina di anni fa la cosa avrebbe riguardato solo i greci, avremmo potuto fregarcene». Infine l’auspicio: «Verrà il giorno, non più tanto lontano, in cui questo sistema imploderà su se stesso». Nell’attesa, conclude Fini, «Forza Eyjafjallajokull».  Bene. La giornata prosegue con un’intera pagina scritta sul Corriere della Sera da Bernard-Henri Lévi: «La lezione delle polveri vagabonde», «Sia benedetto il vulcano, felice il caos da lui scatenato», «La sua gola ardente ci invita alla pazienza delle cose».  Lezione. Benedetto. Felice.   La «Lezione del vulcano» fa capolino anche su l’Unità: Marco Simoni, membro della London school of economics, si chiede tutto eccitato «cosa potrebbe succedere nel caso in cui questa eruzione durasse mesi, o anni».  Risposta possibile: «La natura troverebbe una soluzione ai nostri problemi di surriscaldamento globale». Figata. Tuttavia «la cenere si poserà presto, speriamo che ci lasci il desiderio di trovare nuove strade laddove tendiamo a vedere sempre le solite rotte». Sì. Marco Simoni, che scrive da Montreal, potrebbe provare a tornare in Italia a bordo di una chiatta, per cominciare. Poi i portasfiga si fanno professionali. Sul Messaggero c’è un questionario: «Quanto è alto il rischio di eruzioni vulcaniche nel mondo, e in particolare in Italia?». Risponde il vulcanologo Giuseppe De Natale: «Il rischio è molto alto». Ecco. «Nel mondo ci sono 1511 vulcani attivi». E noi come siamo messi? «L’Italia è uno dei paesi con più elevato rischio vulcanico». Naturalmente. Sulla Stampa interviene il vulcanologo Reynir Bodvarsson che parla dell’Eyjafjallajokull (a scrivere questa frase ci abbiamo messo un quarto d’ora) il quale rassicura tutti: «C’è anche il Katla pronto a risvegliarsi». Allegria. Prima spiega che l’Eyjafjallajokull potrebbe eruttare per anni (accadde in passato) e poi specifica che in genere, alla sua esplosione, segue regolarmente «una lunga eruzione del Katla», un vulcano molto più grande. La cordiale lettura dei giornali non può non soffermarsi poi sul manifesto, secondo il quale, in sostanza, un vulcano si aggira per l’Europa: direttamente nell’editoriale parla del «vulcano anti inquinamento» e si spiega che «non tutto il male viene per nuocere», giacché «ci vogliono venti vulcani per causare i danni degli aerei in Europa, a ranghi completi». Si passa poi alla lotta di classe (economica) e ci si compiace che tutti i passeggeri - dai plebei sui charter alle «classi opulente» coi loro jet privati - siano rimasti a piedi e magari «stesi per terra, senza conforti, a fare i profughi... si impara di nuovo a vivere... questo vuole dire che il vulcano islandese è un vero democratico?».  Aspettando l’ambulanza, il ricercatore francese Pascal Acot, su Repubblica di lunedì, incoraggia tutti e ricorda l’eruzione del Tambora nel 1815, in Indonesia: l’effetto oscurante delle ceneri fu così radicale che il 1816 venne chiamato l’anno senza estate: si creò un atmosfera surreale - racconta il ricercatore - che spinse Lord Byron a ritirarsi a Ginevra per scrivere storie di fantasmi: «Frankestein», precisa, «nacque lì». Poi uno dice: i giornali non vendono più.