La gara a chi froda di più

Albina Perri

di Franco Bechis - Ha ragione, naturalmente Luca Cordero di Montezemolo a tuonare come ha fatto ieri contro la corruzione, subito seguito dal presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia. Parole un po’ scontate, ma chi non le sottoscriverebbe?  L’errore semmai è un altro. Sarebbe stato giusto dire anche di più. Ma in un altro luogo, fosse anche a porte chiuse: in un qualsiasi auditorium degli industriali italiani, avendo davanti agli occhi dirigenti e manager di grandi, medie e piccole imprese italiane. Perché una cosa e certa: le tangenti si possono chiedere e si possono offrire. Nell’uno e nell’altro caso la maggiore parte delle volte la vera protagonista è una sola: l’impresa, che paga. Può capitare che lo faccia a propria difesa, come accade con il pizzo chiesto dalla criminalità organizzata. Si paga per debolezza, perché è meno rischioso che presentarsi in commissariato a denunciare tutto e tutti. Immagino o almeno spero però che chi compie la scelta di pagare poi non salga sui palchi dei vari convegni a dispensare predicozzi a destra e manca. Il più delle volte però le imprese pagano tangenti perché quello è un investimento. Paghi dieci e ottieni cento. Spingi fuori un tuo avversario, conquisti un mercato che altrimenti non saresti in grado di occupare. È un fenomeno raro? No, è la linfa stessa della corruzione, certo non meno diffusa di quella piaga che sembra tornata a minare anche la pubblica amministrazione. Basta confrontare però quel che sta emergendo in questi giorni e in queste ore per rendersi conto di come la predica di Montezemolo potrebbe essere assai più efficace a porte chiuse. Sitema imprenditoriale Fiumi di verbali e di intercettazioni. Nelle 21 mila pagine dell’inchiesta sulla cricca degli appalti pubblici si ipotizzano per indagati e arrestati tangenti in natura del valore complessivo di 2-300 mila euro. Comunque la si giudichi, allo stato dei fatti, un andazzo riprovevole, un sistema di favori radicato e certo di piccola corruttela. Ma se non si trova altro, spiccioli. Un miliardo e 800 milioni di giro d’affari fittizio, 95 milioni di euro di utili creati ad arte, 370 milioni di euro in crediti Iva inesistenti sottratti allo Stato Ieri è deflagrata l’inchiesta sul riciclaggio di denaro sporco e su false fatturazioni ed evasione fiscale che coinvolge alcuni grandi imprese della telefonia privata, in testa Fastweb e Telecom Italia. Si dovranno accertare tutte le responsabilità penali di ciascuno, ma il quadro offerto in due anni di indagini da parte di Dda, Ros e Guardia di Finanza è di ben altre proporzioni. Un miliardo e 800 milioni di giro d’affari fittizio, 95 milioni di euro di utili creati ad arte, 370 milioni di euro in crediti Iva inesistenti sottratti allo Stato. Nel primo caso, quello da qualche centinaio di migliaia di euro, sono forse vittime le imprese e colpevole il sistema politico. Nel secondo caso le parti si invertono. Per chi ha guidato come Montezemolo il sistema imprenditoriale italiano il caso di coscienza si impone con queste cifre. Non solo perché grazie a una legge assai discutibile (per altro approvata in modo bipartisan), quella 231 del 2001 che ha allargato a dismisura la responsabilità penale delle imprese e dei loro amministratori, in inchieste di questo tipo finiscono anche nomi grossi. Basta scorgere il capitolo sui rischi contenuto in ogni nota integrativa dei bilanci dei principali gruppi imprenditoriali e finanziari italiani per avere chiaro come ci sia poco da puntare l’indice verso la pubblica amministrazione o la politica: su un versante circolano storie poco edificanti da ladri di polli, sull’altro cifre con cui si costruiscono posti di lavoro e messe insieme una bella fetta del benessere pubblico. Industriali che nei loro convegni tuonavano contro l’inefficienza della pubblica amministrazione, tiravano le orecchie a governi incapaci di fare la grande riforma delle pensioni e l’innalzamento dell’età pensionabile, si lamentavano di un paese privo di infrastrutture e perciò assai poco attrattivo per i loro investimenti. Grandi prediche e formidabili predicatori Anche ieri Montezemolo come la Marcegaglia hanno invocato quella che da anni per gli industriali è la vera medicina: le grandi riforme dello Stato. C’è stato un battibecco, poi sedato, con il ministro dell’Innovazione, Renato Brunetta, che ritiene di averle già varate. La disputa per sé non ha avuto vinti né vincitori: di carne buona da mettere al fuoco ce ne è sempre, e che lo Stato in Italia non sia macchina granchè funzionante è esperienza quotidiana di tutti. Ricordo altri anni e non necessariamente altri volti nel passato pronunciare le stesse richieste. Industriali che nei loro convegni tuonavano contro l’inefficienza della pubblica amministrazione, tiravano le orecchie a governi incapaci di fare la grande riforma delle pensioni e l’innalzamento dell’età pensionabile, si lamentavano di un paese privo di infrastrutture e perciò assai poco attrattivo per i loro investimenti. Grandi prediche e formidabili predicatori. Poi scoprivi che chi chiedeva di fare andare in pensione più tardi qualche tempo dopo bussava alla porta del ministero del Lavoro a chiedere centinaia o migliaia di pre-pensionamenti per i propri lavoratori in esubero. E indagando un po’ trovavi anche che gli stessi pronti a lamentarsi della mancanza di ponti e strade, avevano costruito i loro gruppi con holding- forzieri portate in Lussemburgo, Lichtestein o alle Cayman. Operazioni talvolta lecite altre volte assai meno, ma tutte motivate da un solo obiettivo: non pagare le tasse (ritenute eccessive) loro chieste dallo Stato italiano. Risultato: grazie a quei meravigliosi imprenditori ponti e strade sono stati costruiti sì, ma a Vaduz. Vecchi vizi C’è uno slogan veterocomunista di cui furono vittime le imprese italiane. Si diceva che erano abituate a “privatizzare gli utili e socializzare le perdite”. Mi spiace rispolverarlo, ma i tempi e i fatti hanno dimostrato, tanto più in questo anno abbondante di crisi economica mondiale, come quello slogan avesse più di un fondo di verità. Banche, imprese, finanziarie sono state rapidissime a incamerare gli utili, ad abbeverarsi agli aiuti pubblici e a scaricare sulla collettività le loro magagne. Lo hanno fatto talvolta colpendo criminalmente risparmiatori, utenti, cittadini che pagano le tasse, singole categorie. Altre volte in modo più soft. Ma è evidente che scaricata sugli altri la merce avariata molti sono tornati all’andazzo precedente, privatizzando utili e grandi bonus. Non sono tangenti, ma in fondo sono una faccia della stessa medaglia, quella del malaffare, della totale assenza di responsabilità sociale (non basta un bilancio ad hoc per assolvere la missione). Certo, è uno sforzo titanico combattere questo malaffare. Titanico e impossibile, se si pensa che la radice del male sia solo in casa altrui.