Marco Pendaglio
Devo ammettere - a proposito di frequentazioni - che io con Marco Travaglio ho avuto buoni rapporti sino al febbraio di due anni fa: anche se frattanto ci scrivevamo addosso di tutto. La polemica pubblica era reale, ma priva di certa cattiveria che c’è adesso. Poteva capitare di scambiarsi informazioni, chiacchierare, ipotizzare un libro a quattro mani, dare una dritta a lui e Peter Gomez con il quale, pure, si parlicchiò di fare un lavoro assieme. Non sono pentito. Ci sono degli aspetti di Travaglio che giudico positivi ancora oggi: il problema è che gli aspetti negativi bastano per combatterlo a vita, soprattutto se si accentuano com’è accaduto da quando monologa ad Annozero e da quando è comparso Beppe Grillo che ha alzato l’asticella dell’antipolitica. Il 6 febbraio 2008, comunque, Travaglio scrisse di Giuliano Ferrara solo per fargli male: gli diede di «donna cannone», «donna barbuta», «Platinette barbuto» accucciato «sotto la scrivania di Bush» come già aveva scritto di Ritanna Armeni. E a me niente ripugna più di chi sfotte per i difetti fisici: è l’ultimo rifugio delle canaglie, lo scherno degli squadristi. Ci sfanculammo. Non ha certo smesso: l’altro giorno ha definito il suo ex amico Mario Giordano «la vocina del padrone». Di me si è inventato che mi tingo i capelli. La delegittimazione preventiva - che ora lamenta - è la sua specialità, e la sua satira per bambascioni qualunquisti ne ha fatto l’idolo dei pirla. Peccato.