Hina, la Cassazione: omicidio non religioso
È stata depositata oggi la sentenza della Cassazione sulla vicenda dell’omicidio di Hina, la giovane pachistana sgozzata dal padre con la complicità di due generi, nell'agosto del 2006, nei dintorni di Brescia. Secondo la Cassazione, l’omicidio non fu legato a motivi religiosi o a riferimenti culturali, rilevando che il padre omicida agì per un «patologico e distorto rapporto di “possesso parentale”». La Suprema Corte, che ha confermato la condanna a 30 anni di reclusione per Saleem Mohammed, aggiunge che il padre ha sfogato «la riprovazione furiosa del comportamento negativo della propria figlia», che voleva vivere liberamente la sua vita convivendo con il fidanzato, non perché mosso da «ragioni o consuetudini religiose o culturali, bensì sulla rabbia per la sottrazione al proprio reiterato divieto paterno». Inoltre, la Cassazione ha respinto la richiesta del padre omicida di ottenere le attenuanti, confermando che i motivi del suo delitto furono abbietti e che il trattamento sanzionatorio ricevuto con rito abbreviato è adeguato. È stata bocciata anche la richiesta di Saleem di estromettere dal diritto al risarcimento dei danni morali, Giuseppe Tampini, il fidanzato di Hina, con il quale la giovane conviveva. In proposito, i giudici rilevano che la convivenza legittima «il risarcimento dei danni al convivente della vittima di un omicidio». La Cassazione ha aggiunto anche che, nel caso di Hina e Giuseppe, si trattava di una convivenza protratta nel tempo che aveva «visibilità esterna», comunanza di vita, ricordando anche il sostegno economico-morale assicurato da Giuseppe alla fidanzata. Infine, sono stati condannati a 17 anni di reclusione Khalid e Zahid Mahmood, i due fratelli, mariti delle due sorelle di Hina, che parteciparono all'aggressione della ragazza nella casa paterna, impedendole di fuggire, mentre il padre la inseguiva con il coltello. Hina Saleem, la ragazza pakistana uccisa nel bresciano dal padre, è stata principalmente vittima di un «possesso-dominio» da parte del padre, che non accettava il suo stile di vita all'occidentale. La prima sezione penale della Cassazione spiega così i motivi per i quali, lo scorso 12 novembre, ha resa definitiva la condanna a 30 anni di reclusione nei confronti del padre, Mohammed Saleem. Secondo la Suprema Corte, la barbara uccisione della ragazza non è da ricercarsi nei motivi di religione, quanto nel «rapporto fra Hina e la sua famiglia e soprattutto nella inaccettabile concezione, travalicante i pur presenti profili religiosi e di costume rinvenibile anche in contesti diversi, che l'imputato Saleem aveva del rapporto padre-figlia come possesso-dominio», nonché «nell'atteggiamento spesso intimidatorio e violento di costui nei confronti della figlia che non sottostava ai suoi voleri e rivendicava margini di autonomia».