Il commento
Mughini: Berlusconi finito? No, ha festeggiato i suoi primi 20 anni
Non ho davvero una boccia di vetro per leggervi se il prossimo 9 settembre Silvio Berlusconi verrà fatto decadere da senatore al punto da diventare bersaglio possibile di un qualche esuberante pm; se da questo ne andrà in frantumi il «governo di larghe intese», come pure minaccia la buona parte del gruppo dirigente del Pdl; se sì o no Giorgio Napolitano fortissimamente vorrà un «governo di scopo» la cui durata e la cui irradiazione simbolica saranno comunque risicatissime; se andremo a una rissosissima campagna elettorale di tutti contro tutti, in cui lo stesso Berlusconi farà da elemento di richiamo e da regista nemmeno tanto dietro le quinte dello schieramento di centro-destra; se un Pdl così conciato (o così attrezzato) non arriverà addirittura a vincere le elezioni e papparsi quell’indecente premio di maggioranza alla Camera di cui attualmente gode il Pd, ed è strano che il Pd sputi a tal punto sul piatto su cui mangia; se in queste condizioni Berlusconi e la sua aura (nei confronti di chi lo odia come un «delinquente» e di chi lo ama come uno capace di camminare sulle acque) non è destinata a durare per un’altra e seppure furibonda stagione politica. E invece alla caduta del governo presieduto da Berlusconi, perché rimpiazzato nel novembre 2011, dal governo «tecnico» presieduto da Mario Monti, io avevo creduto che Berlusconi e il berlusconismo erano giunti al capolinea dopo una storia durata poco meno di vent’anni. Finita la quale, sarebbe venuto il momento di vagliare quella storia come a distanza, di scansare con un gesto brusco i fanatici dell’antiberlusconismo ma anche quelli del filoberlusconismo più adorante, e dunque di capire il più a fondo possibile perché quell’imprenditore milanese di gran successo aveva stravinto le elezioni politiche del 1994 cui si era apprestato in fretta e furia, perché ne ha vinte poi altre due e ogni volta portandosi interamente sulle spalle il fardello dell’azione politicamente vittoriosa. E soprattutto capire perché il «berlusconismo» è divenuto il marchio di un’epoca, dai secondi anni Novanta sino ai nostri giorni. Ne sta scrivendo uno che non è né antiberlusconiano né filoberlusconiano, e che di articoli su di lui non ne ha scritti quasi, laddove scriverei volentierissimo un libro sul «berlusconismo» come fenomeno storico-politico traente di un intero periodo della storia italiana. Un libro così non esiste nelle nostre librerie. I pamphlet - Esistono dei pamphlet aggressivi, alcuni dei quali brillanti e ben documentati, che dipingono il berlusconismo come una sorta di ondata del male che a un certo punto s’è abbattuta sul nostro Paese. Vale probabilmente per il berlusconismo quello che è valso per il fascismo italiano, morto e sepolto il 25 aprile 1945. Ci vollero più o meno vent’anni perché uscissero in Italia i primi libri che studiavano e raccontavano per intero il fascismo, i libri che Renzo De Felice cominciò a pubblicare nel 1965. Libri in cui il grande storico rietino cercava di capire il perché delle vittorie politiche di Benito Mussolini. Studiava il fascismo e studiava la debolezza dell’antifascismo. Perché questo è il punto cruciale. Il berlusconismo emerge dritto dritto da Tangentopoli e dalla distruzione che vi era stata compiuta della classe politica che pure aveva guidato e modellato la Ricostruzione democratica del Paese. Giù dalla torre - Buttati giù a furia di processi i democristiani, i socialisti, i liberali, i socialdemocatici, i repubblicani, che cosa restava sulla piazza? Restava l’ex partito comunista in cui erano affluiti di corsa cattolici e socialisti in mal di identità, un paio di partitini che ancora si inorgoglivano del dirsi comunisti, quei «bravi ragazzi» dei Verdi. Questo a sinistra. E tutti quelli che dal 1946 al 1994 non avevano votato a sinistra, avevano anzi dato la maggioranza politica ai partiti distrutti da Tangentopoli, che avrebbero fatto questi milioni e milioni di elettori che costituivano la maggioranza del corpo democratico del Paese? Badate bene, che cosa avrebbero fatto in un Paese dove dall’oggi al domani è stato instaurato il bipolarismo, o voti bianco o voti nero, Il bianco c’era, la «gioiosa macchina da guerra» capeggiata da Achille Occhetto. Il nero non c’era né da vicino né da lontano. Macerie. E qui si accampa il capolavoro politico di Berlusconi. Innanzitutto perché lui ci crede al fatto di opporre i pugni alla «gioiosa macchina da guerra», e poi perché riesce a mettere assieme i voti di due gruppi politici quanto di più lontani l’uno dall’altro. Gli ex missini di An (gente che se ne fa un vanto dell’identità nazionale della centralità dello Stato), e i furibondi «padani» della Lega, gente che vorrebbe prendere a calci metà dell’Italia da Roma in sotto (Gianfranco Miglio diceva che non andava mai in vacanza a sud di Firenze, perché gli faceva male alla salute). Una combinazione che non sarebbe durata a lungo, ma che i voti li aveva assicurati. Perché una tale riuscita del Berlusconi politico? Perché era o appariva un uomo novus. Imprenditore di gran successo che aveva cominciato dal basso. L’inventore della televisione commerciale, di una televisione dove comparivano trasmissioni e silhouettes inimmaginabili nella compassata televisione di Stato, a cominciare da quella magnifica «Drive in» contro cui tuonano oggi alcuni imbecilli di professione. L’uomo che aveva capito che a giostrare le sorti di una grande e popolarissima squadra di calcio, il Milan, ne hai una gigantesca ricaduta di popolarità. L’uomo che non aveva fatto gavetta nei partiti e nella politica, non lo sapeva bene che cosa era accaduto e quando ai sette fratelli Cervi, ma che proprio da questo traeva un ulteriore punto di forza: il provenire dalle battaglie della vita e dell’economia e non dai cerimoniali di partito. E poi c’era che Berlusconi era ricco, ricco sfondato. Agli italiani questo piace molto. A me Flavio Briatore sta simpatico perché è intelligente, ma sono un’eccezione. Ai più Briatore sta simpatico perché è ricco sfondato, e questo è il motivo per cui l’ex ministro diessino Giovanna Melandri ci andava ospite d’estate. (E poi non ultima ragione c’era la persona Silvio Berlusconi. Vent’anni fa, prima della sua «ascesa» in politica, l’ho frequentato per motivi professionali. Era la simpatia ma anche il garbo fatto persona, e glielo leggevi negli occhi che aveva già capito prima che tu parlassi. Da allora non l’ho mai più visto.) Imprenditore di successo, e dunque un itinerario che non è tenero e che non ama i teneri: nella sua bellissima biografia del Giovanni Agnelli fondatore della Fiat, il professor Valerio Castronovo scrive che a norma del codice l’Agnelli dei suoi debutti imprenditoriali andava ammanettato. La televisione commerciale, e dunque il saliscendi dei miliardi in rosso dei suoi bilanci, e dunque la necessità che la politica del governo non ti sia avversa, ed è un bel pasticcio quando il capo del governo e il capo (reale) della televisione commerciale sono la stessa persona. Capo indiscusso - Un partito che senza di lui non esisterebbe, e dunque un partito semi-inesistente nel senso che in quel partito ciascuno dipende dalla Totale Approvazione del Capo. Una ricchezza illimitata e dunque non sempre facile da gestire massmediaticamente: ricordo come fosse ieri la faccia rattristata del mio amico Jas Gavronski (in quel momento capo delle relazioni pubbliche di Berlusconi) quando sulla platea del «Maurizio Costanzo show» Berlusconi se la cavò male del dire perché di ville in Sardegna ne aveva ben sette. Le ragazze, anzi un certo tipo di ragazze, anzi un certo e ripetuto cerimoniale conviviale a furia di barzellette e di regali in bigiotterria così e così. Quello che io chiamo il reato di sbraco. Un leader vulnerabile. Vulnerabilissimo. Solo che ancora l’altro ieri questo leader ha sfiorato la vittoria politica nell’andare contro un Pd favoritissimo dai pronostici. Torniamo al punto cruciale. La storia del «berlusconismo» è intrecciata anima e corpo con la storia dell’«antiberlusconismo», con la sua inconsistenza di fondo, col suo annaspare tra i rottami della cultura politica della sinistra, col suo non saper parlare alla gran parte dell’elettorato italiano, ai tantissimi e tantissimi che non ne vogliono sapere di votare una forza politica che ce l’ha nel Dna di «far piangere i ricchi». Tanto è vero che uno come Massimo D’Alema non la finisce di dire che il candidato migliore della sinistra a capo del governo è uno che somiglia a Berlusconi, o comunque quello che gli somiglia di più. Il sindaco di Firenze Matteo Renzi. È o non è questo il massimo elogio possibile del «berlusconismo»? di Giampiero Mughini