Le sciagure dei tecnici
Guerra ai contanti e recessione:hanno ucciso il mercato dell'arte
di Camillo Langone Mario Monti come Hegel. No, niente paura, non sono diventato improvvisamente un adulatore del Professore, non mi chiamo Franco Frattini né Mario Mauro e non sono a caccia di ricandidature. Quando accosto Monti a Hegel non gli sto dando del grande filosofo ma, al contrario, dello sterminatore dell’arte. Perché l’ex rettore della Bocconi, un uomo che alla fecondità della bellezza preferisce da sempre l’aridità dei numeri, ha realizzato quella che nel pensatore tedesco era solo una prefigurazione contenuta nella Fenomenologia dello spirito: la morte dell’arte. Detta così sembra una faccenda piuttosto lugubre e infatti lo è. In quel vecchio libro Hegel annunciava, con un ragionamento verboso ma tutto sommato comprensibile, la perdita di centralità, l’emarginazione degli artisti rispetto ai filosofi, categoria di cui, guarda caso, faceva parte. Secondo lui quadri e sculture erano retaggi del passato: si sarebbe continuato a dipingere e a scolpire ma da lì a poco sarebbero contati solamente i concetti. Che se non sono numeri sono comunque astratti e tristi come i numeri. Dopo la morte di Hegel (1831) sono nati Van Gogh (1853) e Picasso (1881), Dalì (1904) e Warhol (1928), e quindi la funesta profezia sembrava smentita, ma nel ’43 è nato qualcuno che nel 2011, diventando presidente del consiglio, l’ha confermata e compiutamente realizzata (almeno per quanto riguarda l’Italia). «Da quando è arrivato Monti non si vende più un quadro», mi ha confidato uno dei maggiori figurativi italiani. Gli ho dovuto promettere l’anonimato perché sotto questa cappa di sobrietà obbligatoria chiunque aspiri a qualcosa di più di un vecchio loden, di una pastina in bianco e di una Fiat usata vive nel terrore dell’Agenzia delle Entrate. «La crisi del mercato dell’arte contemporanea, cominciata nel 2008 in parallelo con la crisi economica, con Monti si è ulteriormente accentuata», conferma una gallerista milanese che vuole anch’essa rimanere nell’ombra, «perché il sistema ci impone di essere ottimisti e fiduciosi». Per mettere qualche nome nero su bianco devo rivolgermi a galleristi anfibi, un po’ italiani e un po’ no, meno geograficamente coinvolti e quindi meno timorosi. Uno è Peter Glidewell, personaggio internazionale fin dal nome, con residenza a Roma, seconda casa a Londra e galleria a Madrid (la Caylus, specializzata in antichi maestri, Velazquez o giù di lì). «In Italia e in Spagna la situazione è ugualmente pessima, anche se in Spagna l’Iva sulle opere d’arte è un poco inferiore. La vera differenza è in Inghilterra». Come mai? «Perché l’Inghilterra è un paradiso fiscale, la legislazione è particolarmente favorevole alla ricchezza e quindi all’arte: l’arte è roba per ricchi, più ricchi ci sono e più quadri si vendono». Mi piace questo pragmatismo, non sopporto i romanticoidi secondo i quali l’arte si nutre di bohème. Ma quando mai? È vero che molti famosi pittori dell’Ottocento francese vissero miseramente ma i loro capolavori hanno beneficiato del benessere dei collezionisti, in grado di comprarli e tramandarli. Altrimenti chissà quanti Van Gogh e Modigliani sarebbero finiti nel camino. E chissà quanti nuovi Van Gogh e nuovi Modigliani moriranno nella culla se continua l’aumento delle tasse e in particolare dell’Iva che oggi, in Italia, per le opere dell’arte è al 21% con concreta minaccia di salire al 22. Invece in Svizzera (mica a Singapore: in Svizzera) è all’8, con una totale, fenomenale esenzione per le opere vendute direttamente dagli artisti. Ne sa qualcosa Federico Rui, affetti in Canton Ticino e lavoro a Milano, dove vende maestri del passato come Carlo Mattioli e del presente come Enrico Robusti: «Prendi un quadro storico venduto a 20.000 euro, toglici il 21% di Iva, toglici il diritto di seguito, un ulteriore 4% su tutte le vendite successive alla prima, un tipo di balzello che in Svizzera nemmeno esiste, e capisci perché lo stesso dipinto a Milano ti fa guadagnare 2-3 mila euro e a Lugano 7-8 mila». Capisco perché in Italia le gallerie muoiono come mosche mentre le fiere svizzere, le gallerie sud-est-asiatiche e le case d’aste inglesi prosperano come non mai. E le fiere italiane? Per loro l’agenda Monti non è un programma politico ma un de profundis: a Bologna Artefiera boccheggia, a Milano MiArt rantola, e si dice che Art Verona sia passata in pochissimo da 120-130 gallerie espositrici a 70-80: nella storia si sono viste cure dimagranti più drastiche ma non in Veneto, ad Auschwitz. L’eccellente pittore Andrea Chiesi ha le idee chiare: “Per ridarci ossigeno bisognerebbe rendere deducibili, anche solo in parte, gli acquisti; ridurre l’Iva; alleggerire il peso fiscale sulle gallerie, da considerare luoghi di cultura, non boutique del lusso”. Secondo me il Monti hegeliano non prenderà molti voti nel mondo dell’arte. Che non è detto si butti come al solito a sinistra: “Se vince Bersani” mi dice il figurativo a cui ho promesso l’anonimato “ritorna Visco che eliminerà del tutto il contante e per noi sarà davvero finita”.